Dal latino votus e vovere, che forse trova la sua radice nell’area lessicale indiana e armena wegwh, o forse in quella iranica e greca, edgh, eukhomai, ma siamo sempre lì, promessa e promettersi, preghiera e vanto, e ovviamente desiderio, visto che è il desiderio a spingerci al voto, e comunque tutto quanto molto sacro e solenne. Niente di prosaico nel voto, tutto versato all’alto, a lassù. Infatti i latini non confondevano, e quando si trattava di decidere di cose terrene e pratiche e perciò stesso inclini all’umana zozzeria, non andavano a votare ma bensì a suffragare, sub frangere, e si esprimevano spezzando nell’urna un coccio, questioni de coccio per l’appunto. In una democrazia liberale matura, trattiamo un prodotto maturo direbbe un depresso venditore di automobili, la pratica del voto è altamente sconsigliabile, se è la governabilità l’unico cardine su cui può poggiare per evitare il rischio incombente dello sprofondo, nulla può essere concesso alla vaghezza dell’immateriale, ancor peggio del trascendente, alla sacra promessa, al solenne giuramento, a tutta la paccottiglia che tanto danno ha recato all’umanità sotto le spoglie dell’ideologia. Ben tollerato, e di una qualche utilità, è invece il suffragio, e nelle urne infatti si rinvengono cocci e frammenti alla rinfusa di altra materia idonea al governare. Dunque, andare a votare, affermare la sacralità di una promessa e di un desiderio, è di fatto un gesto sovversivo, fors’anche eversivo. La qual cosa mi piace da impazzire.