C’è una vita che sia stata vissuta senza una canzone? Una qualunque occupazione dell’animo o del corpo che non abbia un suo canto? Un’impresa, una lotta, una battaglia, una rivoluzione, che si possa intraprendere senza il suo tamburino, la sua banda, il suo coro, la sua voce che ne alza la melodia alta nel cielo azzurro e nella tempesta? È mai possibile un amore senza la sua canzone? E una nazione, c’è al mondo una nazione che non fondi la sua stessa presenza al cospetto del suo popolo senza il suo inno? E il lavoro più duro e quello più noioso si potrebbero mai tollerare senza che se ne trovi il ritmo e il timbro per addomesticarlo in vivibile? E c’è forse nel vasto mondo un dentista che non trapani senza l’accompagnamento di una radio canterina, seppur la più insulsa delle canterine? Io canto da quando son nato, canto sempre, anche per strada, canto centomila arie e canzoni, sono un formidabile jukebox e ho un repertorio ormai centenario, perché ricordo le canzoni di mio padre, di mia madre e anche un paio di mia nonna. Canto a dispetto di chi mi prende per pazzo, e forse sono pazzo perché non è un atto della volontà, ma un atto sorgivo. Mi viene da cantare come ad altri viene da parlare, a me da parlare non viene, se lo faccio è per volenterosa intenzione. Canto, e nel farlo so che in questo modo venero la vita e la celebro. Infatti, cantare dal latino canere, dall’accadico kanu, venerare, che nel corrispondente aramaico e poi ebraico diventa celebrare. Per fortuna che sono intonato non come quei cani di Sanremo.