Di cosa parliamo quando diciamo utopia? Forse del niente? E dell’utopista cosa ne pensiamo? Di colui che passa la vita dietro al niente, per conseguenza logica. Siamo sicuri, di poterci sbarazzare dell’una e dell’altro così, sputati via come il nocciolo di una albicocca adesso che è la stagione. Dipende da quanto bene conosciamo Thomas More e la sua lingua. Utopia se l’è inventata lui e l’ha presa dal greco aggiungendo a topos, luogo, il prefisso che ha sintetizzato in “u”. Bene, ma u non basta, va aggiunta un’altra letterina e il greco gli dà due sole possibilità, o o o e, outopia o eutopia. E la letterina per cui optiamo cambia tutto. Outopia è il luogo che non c’è, eutopia è il luogo buono, il luogo bello, bello e buono vedi la prossima settimana la voce bello, buono). Thomas More era uomo molto colto, molto contradditorio e un filo malizioso; scrisse un libro che parlava di un paese ideale di pace e fratellanza, di giustizia e politica umane e generose, il luogo dell’universale e perfetta armonia, lo fece intanto che viveva e operava nelle cariche più alte nel regno assoluto, e perverso, di Enrico VIII. Gli diede quel titolo di Utopia sapendo bene che nella sua lingua la pronuncia di outopia e eutopia è indistinguibile. E lo scrisse quel libro sapendo che quel bel e buon paese era per lui irraggiungibile, per lui che manderà in galera e al rogo chi leggeva libri sbagliati. Per lui, ma io la penso come Oscar Wilde, tessera numero 1 del Partito Socialista d’Irlanda: “Una cartina del mondo che non contenga Utopia non è degna neppure di uno sguardo”.