Da dove viene il treno, dal francese train o dal latino threnus? Perché se viene dalla Francia va dove gli pare perché i binari non finiscono mai se non là all’infinito, alle rive dell’Oceano, se invece viene da Roma arriva a Bologna e lì si ferma, per sempre. Il 2 agosto quarantadue anni or sono, alla stazione dei treni di Bologna si è compiuta la più orrenda e schifosa strage parafascista, e parastatale, della Repubblica; lo sappiamo, lo ricordiamo, spero tutti: Ora, se consultate un dizionario della lingua italiana, scoprirete che treno ha due significati, il primo, dal francese appunto, è il convoglio di vetture o carichi vari su rotaia, su gomme, su rulli, su quel che volete; ma il secondo, dal latino, ereditato dal greco threnos, è il canto funebre. Singolare, sconcertante, orribile che non ci si pensi mai, che non esista più nel parlare italiano quel treno, quel canto. Forse perché non cantiamo più per i nostri morti? No, non lo facciamo. Magari li piangiamo, più spesso li esclamiamo, può anche capitare di invocarli, persino di maledirli, ma non sappiamo più cantarli. Eppure non c’è altro modo più bello e più saggio per tenerli ancora in vita, qual poco di vita che può ancora essere trattenuta si impiglia nella sottile, fitta rete del canto, e quando il canto si spegne, quel poco di vita è ancora lì, spiaggiato, conchiglia, osso dio seppia, scherzo di mare da raccogliere e tenere. “O figlio,figlio,figlio, figlio, amoroso giglio! Figlio, chi dà consiglio al cor me’ angustiato? Figlio occhi iocundi, figlio, co’ non respundi? Figlio perché t’ascundi al petto o’ si lattato?”