Ecco, ora c’è qui da più di un’ora dell’orologio a due palmi da questa tastiera il gatto Nino, accovacciato, immobile, guarda qualcosa ma non ho idea di cosa, forse guarda me, forse guarda l’orologio che ho al polso sinistro, ma non ci giurerei. È un gatto sottoproletario, un ramingo che ha vissuto di espedienti, ha combattuto molte battaglie e porta i segni di molte sconfitte, è giovane ma ha già consumato due o tre delle sue sette vite; lo guardo e la sua immobilità, la sua assoluta nullafacenza mi turba, sa o non sa di avere un tempo, che i suoi anni, forse i suoi mesi, sono contati, che quel tondo di acciaio splendente che sta guardando è lì proprio per contrarglieli? Propendo per il no, Nino conosce il giorno e la notte, il mese caldo e il mese freddo, il periodo annuale dell’estro delle femmine, ma non credo che sappia come tutto questo è tempo, latino tempus, greco temno, divido, separo, spartisco, e dunque conteggiare, valutare, rendere conto; Nino non sa fare i conti, e è per questo che ora è qui e mi sembra soddisfatto di esserci, esserci e basta. E io? Se non avessi l’orologio al polso saprei del tempo? Sì, perché tutto quanto quello che vivo è conteggiato, separato, valutato, spartito; io stesso sono un orologio. Un tassista di Bogotà mi chiese se potevo aspettare mentre salutava suo figlio, gli dissi che non avevo tempo, e lui rispose: hay mas tiempo que vida, c’è più tempo che vita. È vero, ma mi ci sono voluti degli anni per capirlo, e ancora adesso mi scopro a pensare di avere troppo poco tempo per vivere.