Dal latino servus, schiavo, forse da sero per annodare, legare, oppure da servare per custodire, conservare; e la radice antica è iraniana, haurvo, che sta per custode, guardiano. Dunque siamo partiti dalle ancestrali nobiltà dei custodi dell’Oxiana per giungere alla suburra dell’Urbe da schiavi. E poi dicono che uno si butta a sinistra. All’atto di violenza dell’uomo sull’uomo corrisponde identico atto di violenza sulla parola, stupro del significante, appropriazione indebita del significato, perversione del senso. Se l’uomo non avesse inteso mettere le mani sull’uomo, e sull’intero universo già che c’era, servire sarebbe ancora universalmente riconosciuto per quello che è, atto di nobiltà. È bastato strangolare nella forma passiva ciò che è nato per essere libero e attivo; un’oscena guerra civile sferrata dai patrizi contro i plebei, risolta in un golpe linguistico che ha corrotto custodire in custodito, legare in legato, annodare in annodato. E così chi dovrebbe servire diventa servito. A me piace servire, piace poter dire ho in custodia questo bene e faccio buona guardia, sono legato a questa persona e non intendo sciogliere il vincolo, ad esempio. A me piace sentir dire, ho servito nella pubblica amministrazione, sono al servizio dello stato, sto andando a servire messa, ad esempio. Una società basata sulla servitù universale sarebbe giusta e feconda, ognuno al servizio di tutti; infatti a suo tempo c’è stato un errore di distrazione, non si trattava di abrogare la servitù, ma il suo perverso modo passivo. E costruire il mondo declinando al futuro, servabo.