Dal latino, maschera. Ma la specifica maschera del teatro, funzionale, utilitaria, disegnata per enfatizzare i tratti del volto del personaggio così che il pubblico non necessariamente colto capisse subito con chi aveva a che fare, e con particolare riguardo a fare della bocca un megafono perché potesse essere udito anche dalle ultime file. Questa dunque è una persona, una maschera di sé, qualcosa di passabilmente interessante che indosso perché io possa recitare con efficacia la mia parte al cospetto del folto pubblico. E dunque che altro può essere la mia personalità se non la mia recita? E così, la qualità della mia recitazione stabilisce il grado della mia personalità, una personalità fragile è una incerta prova, una forte personalità una gran esibizione. E non c’è altro modo di esistere, di esserci, di agire. Nessuno, ma proprio nessuno, se la sente di andare in giro nudo, peggio che nudo, scuoiato; che ci si ricordi, abbiamo sempre avuto bisogno di metterci qualcosa addosso, anche se non fa così freddo. E ci è stato sempre chiesto di fare la nostra parte, di farla al meglio, secondo le regole, secondo i gusti, secondo le necessità. Solo i matti vanno in giro nudi, solo loro non sanno star dietro a uno straccio di recita. Per questo non me ne importa niente di essere una brava persona e quello che vorrei è essere solo un brav’uomo. Per questo Diogene, il Socrate pazzo, il Cane, il filosofo che ululava contro ipocrisia e conformismo, andava in giro cercando l’uomo con il lanternino. Senza mai trovarlo, nemmeno in sé stesso.