Puoi dire ospedale o hotel che non cambia niente, è la stessa cosa; puoi anche dire ostello o ospizio che va bene lo stesso, non cambia niente. Perché tutto questo viene da hospes, ospite. Nella mia lingua materna c’è una parola che mi uso ancora oggi che sono orfano da un pezzo, orfano di madre e di lingua, sostio, l’abbiamo ereditata dall’occitanico sostal, che è a sua volta ancora la stessa cosa, hostal. Mi riempie il cuore il suono della voce che all’imbrunire dalla porta di casa invoca rivolta alla campagna, vèni ‘gno, mettete a sostiooo! Vieni bambino, mettiti al riparo. Questo era la casa dove sono nato, e questo è l’hospes, e l’hotel, e l’ospedale, e l’ostello. Riparo. Ma cos’è il riparo? No, non è certo fatto dei muri di una piccola, fragile casa tirata su con i mattoni di scarto della vicina fornace, coperta di un tetto di coppi raffazzonati alla stessa maniera, il riparo è la sua anima, l’anima abitatrice della casa. È l’hospes, l’ospite, ciò che tiene acceso il fuoco, la pignatta che sobbolle in eterno con sempre qualcosa dentro di buono, il caldo di una stufa, il fresco di un secchio d’acqua del pezzo, la certezza di essere benvoluto e benvenuto. L’etimo di hospes è incerto, si protende per la sincope di hostis, straniero e il sanscrito pati, signore nel senso di colui che sostenta e protegge. E così l’ospite ha ancora oggi il significato di colui che ospita e di colui che è ospitato. Curioso, no? Ma forse l’anima della casa, dell’ospedale, dell’hotel, non può che essere assieme la minestra nella pignatta e il cucchiaio di chi se ne nutre. La cura e il curato.