Giovedì ho subito un’operazione, chissà se è andata bene o se questa voce uscirà postuma, mah, vedremo. Intanto dico operazione perché così vuole la voce del popolo, in verità in termine corretto, lo sappiamo, sarebbe intervento chirurgico, un piccolo intervento e un breve ricovero, mah, staremo a vedere. Intanto io sto con il popolo, e so per certo che si tratta di un’operazione e non di un intervento. Perché l’intervento dice e non dice, intervento è parola equivoca, si può intervenire in troppi modi e troppo diversi, si interviene con un discorso e si interviene con un missile atomico, si interviene per sostenere e per abbattere, affermando di sostenere e agendo per abbattere. C’è così tanta ipocrisia, troppa indeterminazione nell’intervento. L’opera è parola limpida, inequivoca, e così l’operare e dunque l’operazione. Opus, dall’accadico uppusu, fare, agire, nel senso proprio di lavorare, di trasformare la materia con il lavoro in fisica e la fatica in pratica, che vi si applica. Nella mia lingua materna andar all’opre sta a dire andare nei campi a lavorare la terra o andare nelle case dei signori a pulire e lavare al posto loro. niente di più materiale, di più fisico, di più invadente. Così quello che si accingono a farmi mentre scrivo e quello che avranno fatto quando leggerete, è lavoro di vanga, pala e ramazza, l’opre per l’appunto. Poi te lo raccontano come intervento di grande delicatezza manuale e sofisticata tecnologia, ma forse che non sia delicato e sofisticato il lavoro del contadino e quello della signora delle pulizie?