Nazione, natio, è nascere, questo è. Per questo nazione non è patria, è matria, e come tipico dell’umana specie, nascendo è sangue e dolore. Non sono rari gli aborti. Quelle che tra le nazioni ce la fanno a superare i traumi dell’infanzia, trovano il modo di sopravvivere facendosi patria, lasciando dunque la madre per concedersi al padre, all’ordine patriarcale che tutto sistema, dire madre patria è ossimorare senza pudore. Il patriarca di tutti i patriarchi è lo Stato, e tutto il materno della nazione è consegnato allo stato purché metta ordine in sangue e dolore; la prima e più efficace rappresentazione grafica dello Stato è la copertina di un vecchio libro secentesco intitolato Leviatano, il più mostruoso di tutti i mostri, e il suo corpo è composto dall’amalgama di un’infinità di inani omuncoli. Tanto per capirci. Ma volgiamoci ancora con accorata nostalgia alla nazione. All’idea che la nazione è nel suo nascere, non nel fatto che io ci sono nato, ma che io rinasco, e non lo faccio da solo, ma assieme a dieci o dieci milioni di altri umani. Rinasco con un’intenzione un po’ più che naturale, rinasco per essere uno assieme a tutti, e lo facciamo di nascere assieme in un paesaggio che non è mai stato lì, ma è qui, nelle nostre menti, forse nel cuore, forse nell’anima. E sangue e dolore vengono proprio da qui, dal muro nella nostra mente che va sgretolato per dare la luce al paesaggio senza muri che sarà la nostra nazione.