Murus, annesso a moenia, recinzione, chiusura, fortificazione, ostacolo quella roba lì, con la differenza non irrilevante che moenia è senz’altro le mura di pietra, mattone e legno dura, mentre murus ha un valore preminentemente di astrazione. È interessante risalire alla radice remota moi-r moi-n, che ha il significato di autorità nel senso di limite, barriera, e mentre altre lingue se la portano dietro quella radice con il significato pratico di impasto, intreccio -e si capisce, perché i muri al tempo si facevano impastando, intrecciando, l’argilla con le paglie – solo in latino rimane la sua origine astratta che diverrà sorgente di metafore a non finire. La più cogente delle quali la propone, sonoramente, Ivano Fossati, che per inciso è un eversivo e magnifico lavoratore della lingua: “sarà che abbiamo nella testa un maldetto muro”. Eh, sì, muraglie di mattoni non se ne vedono in giro per il Paese, se non quelle dirotte nell’andare della storia, ma quanti tra noi possono pensare in onestà di avere la testa sgombra da un maledetto muro? E non parlo solo del ministro dei muri o del partito dei muri o del governo dei muri, ma dico delle persone perbene, dei miti, dei probi, parlo di me; mi ascolto e lo sento il mio maledetto muro che mi stringe nel peggio in un cantone e nel meglio in un cantuccio, che mi accorcia il respiro e mi orba. Il mio maldetto muro è il dolore per il mondo com’è, per diromperlo basterebbe la forza del ragazzino con la fionda, la gioia per il mondo come potrebbe essere.