Dai vedici ai latini e infine a noi qui, la morte è tutta nella arcaicissima radice mrt-s, morire e basta; c’è solo nel germanico murd una deviazione nel senso di assassinio, e questo si ritiene dovuto al costume di sopprimere i vecchi inefficienti, che dunque non avevano accesso alla morte che diciamo naturale. E noi? Di cosa parliamo noi quando parliamo di morte? Diciamo morte e intendiamo morte, e cioè? Ci è chiaro che un organismo si consuma, si deteriora, e infine collassa e si disfa. Qui nel giardino c’è un ciocco di pioppo, lasciato lì a far niente, l’albero è morto, ma il ciocco? Il ciocco c’è, e anno dopo anno continua a essere qualcosa, probabilmente persino qualcuno, si trasforma, evolve, è abitato di vite che prosperano. Per noi abbiamo escogitato la morte cerebrale, il fatto attestante che non ci siamo più nella vita, perché la nostra vita è nel cerebro che si determina e si conforma. Sì? Io non saprei proprio dire, io non lo so, io non ho una stima così esclusiva per il mio cerebro. E non sono interessato alla vita dopo la morte perché in effetti non ho idea di cosa sia la morte. Nel libro biblico della Sapienza c’è un passo che continua a dirmi qualcosa che capisco e non capisco e così l’ho imparato a memoria, fa così; “Dio non ha creato la morte. Ha creato le cose perché esistano, le forze presenti nel mondo sono per la vita e non hanno in sé nessun germe di distruzione, sulla terra non sarà della morte l’ultima parola… Gli empi invocano su di sé la morte con gesti e con parole, ritenendola amica si consumano per essa e con essa concludono alleanza, perché son degni di appartenerle”.