È una voce già sondata nello scorso anno, e allora mi sembrava che andasse bene così. Ma proprio ieri, rovistando nella scatola da scarpe dove tengo tutta la minutaglia che nel tempo ho avuto pena di gettar via, in verità stavo cercando la mia antica patente di guida preso dalla nostalgia della mia faccia al tempo che scorrazzavo nella vita sopra una Guzzi Le Mans, la bara volante che mi è costata tre anni di ospedale e la fine della mia carriera di pilota da strapazzo, ebbene, in fondo in fondo alla scatola ti trovo una moneta da cento lire, frutto della zecca di stato dell’anno 1972. Me la rigiro tra le dita, non erano poche a quel tempo cento lire, ci potevo ad esempio comprare un pacchetto di Nazionali da dieci o una focaccia lunga due palmi, così la considero con attenzione e rivedo la testona della Repubblica e di volta Minerva. Già, Minerva, l’antica icona romana del governo della Repubblica. Forse negli anni ’70 si poteva ancora pensare di governare il Paese a colpi di cento lire? Perché no, erano tempi di grandi vedute e audaci tentativi. Ma che governo ci raccontano le cento lire? Ecco, Minerva con in capo un elmo crinuto da cavaliere, perché il governo difende e protegge la Repubblica; alla mano destra tiene i serti di un giovane ulivo e alla sinistra una lancia, perché è facoltà del governo la pace e la guerra. Ma è alla destra, la mano della saldezza e della giusta misura, che tiene l’ulivo, perché è la pace che dà forza e prosperità al governo. Tutto molto semplice, tutto molto giusto, tutto in una moneta che oggi varrebbe cinque centesimi, giustamente non più reperibili per insufficienza di valore.