Ovvero farsi serpente, piegarsi, curvarsi, appiattirsi e strisciare oltre la fessura, lo spiraglio, il cavillo, il muro, il gate, il filo spinato, la fogna, il posto di blocco, verso qualunque cosa che non sia ciò che si è lasciato. La remota radice della fuga è nel sanscrito bugh, che in greco si fa fugh e in latino si semplifica in fug, ed è appunto il curvarsi, la piega della serpe. Non c’è nulla di male nel serpe, prudente è il suo ancestrale spirito, e la prudenza fa la differenza tra la vita e la morte del fuggitivo; ma è difficile per l’umano piegarsi, ci ha messo milioni di anni di dura fatica e aspra selezione per mettersi diritto, per farsi eretto, e da eretto abile, e da abile a sapiente. E tutta la sua sapienza è lì, nella dirittura, e tutta la sua vergogna è nel tornare a curvarsi. Eppure l’onta è di chi lo costringe a piegarsi, e la nobiltà è tutta nel fuggitivo. Non c’è umano che non si sia mai trovato nella condizione del fuggiasco; i fortunati sono fuggiti da un amore, gli affamati da una carestia, gli inermi da una guerra, i furfanti da una legge giusta, i giusti da una legge iniqua, la vittima designata dal suo prossimo carnefice, e per ognuno di loro non c’è stato altro modo di farlo che piegandosi e strisciando fino ad adattarsi alla fessura che gli promette un nuovo destino. Per molti, per i più, oltre quella fessura non c’è che un lungo cunicolo e laggiù una piccola luce che promette, promette, promette per tutta una vita.