Il grano è il chicco, il chicco maturo, e cioè secco perché è quando la spiga si asciuga del tutto che il grano è maturo, e grano ha una antichissima radice indoeuropea, gere, che appunto ha il significato di seccato, vecchio, da lì bel bello in greco geron. Frumento è invece il raccolto, dal latino fruere, godere, fruire. Ve bene, ma sono secoli ormai che non stiamo lì a spaccare il capello in quattro e grano e frumento sono diventati suppergiù sinonimi. E a loro volta metafore. Persino adesso che siamo satolli e pasciuti di ogni bendidio alimentare, dire grano, vuol dire ancora qualcosa di molto più grande di un chicco; vuol ancora dire pane, e incredibile che possa sembrarci intanto che non riusciamo a mangiarci una michetta a testa e metà la buttiamo, quando va bene nell’umido, nel suono di pane riverbera qualcosa di ineffabile riguardante l’essenziale del bene, e, ascoltando con attenzione, udiamo insinuarsi il sibilo della fame, e fremiamo. Pane e fame, nell’opulenza rimane ancora la fossile traccia di un antico grido di battaglia, pane e lavoro; nel sacchetto ricolmo di grissini da quindici euro al chilo si annida un’ancestrale smania di possesso, la pacchia potrebbe finire. Mio padre mi dava un ceffone se mi beccava a fare palline con la mollìca della michetta, per lui la mollica era già pacchia. Adesso è iniziata una nuova guerra del grano, lo è senza l’ombra di metafora, ma chi sa davvero cos’è il frumento, la guerra l’ha già persa. Signore dona il pane a quelli che hanno fame e dona la sete e la fame a quelli che hanno il pane, Abbé Pierre.