Æstas, da ædere, latino dal greco aithein, accendo, ardo, da aithos, fuoco, calore. La radice antica aidh, da cui il sanscrito edhah, idhmah, legna da ardere, che genera anche il latino ædes, casa, tempio, e il nome primevo del monte Etna, Aidhena, oltre, naturalmente, la categoria degli edili. Se mi sfugge il nesso tra ardere e casa e tempio, a meno che non si decretasse già nell’antichità il destino ultimo di case e templi nel farsi cenere, e accordo agli edili solo un vago sentore di bruciato, mi è invece chiarissimo che mi trovo nel cuore ardente dell’Etna. Qui, ora, mentre cerco di scrivere senza inzaccherare la tastiera con le gocce di sudore che mi grondano dalla benda che portò sulla fronte, ansimando, il fiato bruciante di questa estate. Odio l’estate, il sole che ogni giorno ci scaldava, che splendidi tramonti dipingeva, che ora brucia solo con furor. Odio l’estate, il baratro di macaia, la sentina sciroccosa che un tempo era tiepida meraviglia del meridiano refolo di maestrale e serotina, vivificante brezza d’Appenino, già, quella lì che splendidi tramonti dipingeva. Antiche, estinte, estati tirrene. Tornerà un altro inverno, cadranno mille petali di rose, e non ci sarà un filo di neve che potrà coprir tutte le cose così che forse un po’ di pace tornerà. Resterà, appena sopito in un infinito sobbollimento, l’ardore della passata estate pronto per la futura. Pensare che è così struggente l’ardore, è così romantico ardere, quando è un lampo, una fiamma, un istante che dona il profumo a ogni fiore, che ha creato il nostro amore per farmi poi morire di dolor. Non questo schiattamento.