Dal greco, en/theos/seismos, scosso da un terremoto divino. L’entusiasta è abitato, ha in sé qualcosa più grande di sé, inesplicabile, ineffabile, ingovernabile, divino. Posso crederlo perché lo vedo quando mi prende l’entusiasmo, più precisamente quando me ne faccio prendere, perché sono adulto e ho potere di interdizione sull’ineffabile, e quando godo o patisco l’entusiasmo altrui. L’entusiasmo mette le ali ai piedi, perché l’entusiasta è un terremotato, ma il terremoto ce l’ha dentro, e il suo pensare e agire entusiastico è una fuga a gambe levate dall’insostenibile che lo possiede, dal dio che lo rintrona nelle interiora. Così che egli stesso si fa terremoto, corifeo del dio che lo abita, imprevedibile, incontrastabile, agita la storia degli uomini, la dirompe e la rigenera contro la loro stessa indole. La cosa che ci deve estasiare e tormentare è che nulla sarebbe stato possibile e niente lo sarà senza l’entusiasta e senza l’entusiasmo. Nessuna buona cosa di ciò che sappiamo diventare e nessuna schifezza a cui sappiamo ridurci. Forse che si sarebbe potuto massacrare popoli interi senza il dovuto entusiasmo? La stessa quota di entusiasmo che è stata necessaria a Pasteur per debellare la rabbia silvestre. Pensandoci bene, la vastità delle macerie che gli entusiasti hanno disseminato sulla loro divina scia compensa perfettamente la quantità di meraviglie edificate. È il tormento della storia degli uomini. Per questo, astutamente come è da loro, i greci hanno esentato sé stessi e i loro eredi dall’indicibile peso di questa responsabilità, e si sono regalati gli dei.