Compagno, dalla traduzione in tardo latino del gotico gahlaiba, colui che mette il pane in comune; compagnia, l’assieme degli umani che condividono il pane. C’è altro modo più vero, più potente, più santo, per stare assieme che mettere a mezzo, compartire, il pane? Il mio pane è il tuo pane, la mia vita è la tua vita, là dove ci spartiremo il pane della nostra vita, quella sarà la nostra casa, la nostra sede, la nostra patria. Tredici secoli dopo la nascita di Cristo e sei prima di quella di Carl Marx, i facchini del porto di Genova, i camalli (dall’arabo ḥammāl, portatore) fondarono la loro Caravana (dal persiano kārwān, viaggiare assieme) stabilendosi in Compagna, senza la “i” perché i liguri sono restii ad addolcire qualsiasi cosa, compresa la lingua. Decisero così di spartirsi equanimemente il frutto del loro lavoro e di proteggersi reciprocamente dalle malandrinate degli armatori e dei mercanti, giurarono di assumersi ognuno la responsabilità per l’incolumità di tutti. Al modo dei marinai, che al tempo, e persino oggi, stare sulla stessa barca questo imponeva, essere compagni, per la loro salvezza. Da quanti anni, da quanti decenni ormai, non sento più evocarmi e convocarmi compagno. Come se fosse fuori luogo, persino disdicevole, la volontà di spartire veramente il pane, spartire veramente la vita, e la responsabilità di un comune pensare, e la necessità di comune salvezza. Compagni miei, ma davvero non c’è più una barca dove navigare assieme, ma solo lerci, malridotti salvagente da arraffare in tempo per il si salvi chi può?