La mia lingua materna è così austera, chiusa e forse brutale, che ho dovuto aspettare molti anni e molte nuove e straordinarie opportunità per venire a conoscenza delle parole più dolci e aperte. Perché carezza, ad esempio, entrasse in famiglia ho dovuto aspettare nove anni e avvalermi di una zia beghina e della sua televisione accesa a tutto volume nel mezzo di una cena insipida sul papa buono. Il papa dalla voce dolce nella notte di Roma, fiaccole nella sua piazza, luna nel suo cielo Tornando a casa troverete i bambini, fate una carezza ai vostri bambini e dite loro, questa è la carezza del papa. A scuola s’era pur letto di carezze, una faccenda tra madri e figli molto malati o meglio se moribondi, indifferentemente gli uni o le altre, vediamo di non arrivare alle carezze sembrava la morale. Ma il papa buono con la sua voce morbida e chioccia parlava di carezze per chi torna non per chi parte, carezze per bambini in buona salute che aspettano a casa, la casa è un buon posto per le carezze. La notte, la luna, la voce, il ritorno, da allora, nella fausta coincidenza della solenne apertura del concilio ecumenico Vaticano II, mi sono peritato di diventare un grande esperto di carezze e un generoso carezzatore. E dunque è da intenditore che posso affermare con decisione che la carezza non viene da ciò che è caro perché prezioso e ambito, accadico Karu, mercato, ruffiano e prostituita, ma da ciò che mi manca, careo, perché raro, e raro perché la radice è Kama, amore.