“C’è ancora lo spirito di Caino…”, Il papa dei cattolici Francesco parla spesso di Caino in questo tempo di guerra, il fratello che uccide il fratello. Mi vendono in mente le suore pestate dalla polizia al G8 di Genova vent’anni fa, offrivano magliette con su scritto “Un Padre, sei miliardi di fratelli”, allora eravamo ancora così pochi. E ora che siamo due miliardi di più, ancora non riesco a distinguere tra umano e umano, e penso che sì, siamo tutti quanti fratelli, anche se sul padre non so. Siamo fratelli ma tutti della stirpe di Caino, quella di Abele si è estinta già nei primi versetti della Genesi. È una storia biblica che tutti conosciamo, il terricolo contadino Caino, ebraico Qayin, l’acquisito, uccide il fratello pastore Abele geloso delle sue buone maniere, del suo spirito contemplativo e placido, del suo spirituale vagabondare così grati a Iddio. Quello che forse non ricordiamo e è bene invece farlo, è che Iddio segna Caino con il marchio della sua infamia e poi lo lascia andare; di più, proibisce a chicchessia di torcergli un capello. Certo, perché è affidata a Caino la nascita della civiltà che conosciamo, costruirà la prima città al mondo, la popolerà di tutte le attività che daranno prosperità agli umani. Non possiamo non dirci nella nostra universale fratellanza progenie di Caino. Abele è una vaga, fossile traccia, un’ancestrale nostalgia; gravidi dello spirito di Caino, impossibilitati a rimangiarci tutta quanta la storia dalla fondazione della prima città in poi, eppure ci straziamo nell’attesa che miracolosamente Abele si rifaccia vivo.