L’augurio è un volo di uccelli, e l’augure, augur, colui che lo sa interpretare, meglio per noi se il responso è augurale. Tutto ha origine nell’accadico ahhururu, che è l’uccello nero, il corvo, che a sua volta ha la sua singolare provenienza da ahratu, ciò che viene dopo, il futuro. Cosa avrà convinto i saggi accadi, così laicamente protesi tanto alla speculazione teorica quanto alle scienze applicate, ad affidare al nero pennuto le loro sorti resta un mistero, e il fatto che questa stramberia arrivi fino ai pratici latini, è un mistero nel mistero. Se poi nel mistero vogliamo sprofondare, che dire del laicissimo, scafatissimo, ombreggiato di cinico disincanto, qual fu il Carducci, che nel suo componimento poetico più noto, che al pari di alcuni milioni di ex scolari so recitare ancora a memoria, si appropria e investe il suo cacciator fischiante del compito di starsene sull’uscio a rimirar tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri com’esuli pensieri nel vespero migrar? Nella decadenza carducciana il futuro non è che esule pensiero, nello sfinimento romantico non c’è che da aspettarsi il peggio, vedi per tutti il corvo di E. A. Poe, nella fottuta contemporaneità non c’è proprio domani, e al corvo non resta che finire malamente tra i delatori, che hanno solo a che fare con le cattive notizie del passato. A me piace fare gli auguri perché mi piace pensare di saper leggere nel volo delle alzavole, dei colombi, degli storni, e anche dei corvi; qui sono tutti di casa e quello che leggo  è sempre la buona notizia del loro volo.