La pietà, pietas, è una dea, aveva in Roma due templi a lei dedicati, uno dalle parti del Circo Flaminio e l’altro al teatro Marcello; una dea molto latina, pietas non ha concordanze se non nell’umbro, e direi che è per questo che si è scissa in due, la pietà tra umani e dei e tra dei e umani, e la pietà tra genitori e figli e tra figli e genitori. È molto latina la cruda consapevolezza che in famiglia e nel tempio, e tra l’una e l’altro, non sono tutte rose e fiori, ma groviglio di pulsioni che le leggi umane e divine non bastino a regolare, a salvare, a proteggere; è dunque necessario appellarsi all’aerea ineffabilità di una potenza che addomestichi tutte le forze, che le conduca al fragile mistero di un accordo, che nella fragilità c’è l’unica possibile speranza. La pietà, talmente fragile da essere indescrivibile, perché è assieme dolcezza e fermezza, acquiescenza e purezza -pietà è l’astratto di pio e pio è il puro, il disinfestato, il fumigato, il consacrato-, amorevolezza e tenerezza, abbandono e distacco, e molto altro ancora di indicibile e in cuor nostro sentiamo salvifico, riparatore. Salvo accorgercene sempre un filo più tardi di quando vorremmo, e scopriamo con nostalgia come sarebbe stato tutto più semplice e fecondo, più lindo e gentile, più santo poteri dire avendone il coraggio, il nostro vivere se solo fossimo stati devoti alla pietas. In verità la pietà è dei semplici di spirito, do coloro che non trovano scandalo nella purezza, per quelli che la sanno lunga è l’impietà la loro dea.