Sub limen, sotto la trave del tetto, nel posto più alto dove puoi guardare. Sono stato interrogato sul significato di questa parola, e così, pensandoci bene su, ho dovuto ammettere di non averla mai messa per iscritto, mai una sola volta nella mia vita, e forse di non averla mai pronunciata, le parole volano e non ci posso mettere la mano sul fuoco. È una parola densa, intensa, ricca, sicuramente evocativa per i più, una parola che fa la sua figura nelle circostanze più fini e signorili, ben detta in una stanza dei musei vaticani al cospetto di un’opera a scelta, nell’auditorium dell’accademia di Santa Cecilia alla fine di un’esecuzione della quinta di Mahler, in un pourparler tra poeti e poetesse del circolo di lettura Alda & Dino, circostanze che non mi sono così familiari; no, penso proprio di non averla nemmeno mai pronunciata. E neppure mi manca; c’è qualcosa che non mi torna in quella parola, un falso suono, un che come di leccornia, un interdetto che dir non saprei, ma sento. Progenie di Caino, avvezzo a tener la testa china sulla nera terra alle volgari opre volto, alzo il capo lassù alla trave del tetto assai raramente, e ciò che vedo è la trave, solo la trave. E allora il sublime che vi è appeso non mi basta. Vorrei divellere quella trave, sfondare il tetto e poter guardare di là, lassù per davvero, dove non ho mai guardato, dove nessuno mi ha mai detto di guardare, dove non so niente di niente, super limen, oltre la trave, una parola che non c’è. Ma non per questo è proibito provare a inventarla.