Dal latino sollus, intero. I latini lasciarono perdere il greco monos e se lo presero direttamente dal sanscrito sarvah, che sta appunto per completo, intero. Non che i greci con il loro monos volessero poi dire una cosa tanto diversa, infatti il monaco che viene dritto dritto da monos, ritiene di trovare la sua intierezza nella solitudine. Ecco, pare che né greci né latini, ciascuno per la sua strada, trovino che ci sia niente di male nello star soli, nella solitudine. Anzi, è solo lì, pensavano, che è possibile percepire la propria interezza e sentirsi completi. Cosa ne è allora di noi che nella solitudine ci maceriamo, ci disperiamo, ci straziamo, che di solitudine ne moriamo? Forse che abbiamo abbandonato la speranza di riconoscerci nella nostra interezza, forse che ci siamo arrivati all’interezza e ci ha spaventato a morte quello che abbiamo visto, o anche solo intuito di noi? Sono vecchio e nelle attuali contingenze virali dovrei stare in campana, sono classificato come terza scelta, eppure la cosa non mi ha mai spaventato; il giorno di Pasqua ho fatto a scopo documentale un lungo viaggio di trenta chilometri, non ho incontrato nessuno, nessuno nemmeno ai crocicchi, nessuno davanti a una casa, a una chiesa, su un’auto o su una panchina. E ho avuto paura. Paura vera e irrimediabile, paura di bambino. Forse che non incontrando nessuno ho incontrato me stesso? No, io sono da qualche parte che ancora bene non so. Credo invece che non incontrando nessuno non ho incontrato neppure me. Perché i monaci sono pochi e santi e ultraumani, e la loro solitudine non è la mia.