Sol, latino, e il latino discende da una interminabile catena che ha il suo primo anello in una delle radici più antiche e universalmente diffusa, sawel swol, forse sawu, da cui, sawa, sulari, solere, suel, sunno, soiler, saule, acacdico, sanscrito, celtico, arabo, persino il misteriosissimo etrusco savlasie… Solo i greci gli hanno tolto la esse, chissà perché. Lo splendente, il luminoso, che arde, ma non sempre maschile, nel gotico primevo è la splendente. Un dio, mai libero perché eternamente vincolato in matrimonio con la Luna, Selene, anch’essa la luce che risplende. Solstizio, sol e sitium, il luogo, il posto dello splendente nel cielo quando si misura il suo trionfo, quando la sua morte e resurrezione. Solstizio d’estate, giorni di esaltazione, struggimento, delirio, deliquio. Tutto risplende, tutto è luce, tutto è calore, luce e calore benigni, divini; il pallore è senza diritti e la pigrizia un peccato mortale, ogni cosa è matura, madida, da annusare, da divorare, da compiacere. E tutto è sfibrato, obnubilato di troppa vita, troppa. Vorresti dormire un po’ di più, ma è già alba, via, fuori; vorresti rientrare a casa, ma il tramonto tarda, indefinitamente, restiamo ancora un attimo, c’è ancora luce per un ultimo tratto di strada, un ultimo bacio, un’ultima coltellata. Poi, già il ventidue di giugno lo splendente si avvia al declino, la stagione decresce, per San Giovanni si accendono i fuochi augurali del ritorno, per San Pietro e Paolo sentiamo che ormai i giorni si son fatti più brevi e la luce più torbida.