Dal gotico slaihts e quindi germanico sleht, piano, liscio, semplice, puro, integro, incontaminato. Nella lingua italiana ha proprio un bel suono, squillante, franco, plateale; nella mia lingua materna, nel ligure di estremo levante, è sceto, con la c dura, quindi suona un po’ meno brillante, un filo più morbido, forse persino più riservato. È una parola che se n’è andata, per me è solo ricordo, traccia fossile di un vivere e nel vivere di un odore, di un sapore, di un sentimento. A me son magnà en filon de pan scietto. Mi sono mangiato un filone di pane schietto. È passato più di mezzo secolo da quando lo sentivo dire, niente e nessuno compreso in quei suoni esiste più. Il pane schietto, il pane liscio, semplice, puro, ovvero senza companatico, pane e basta. Per mangiarsi un filone di pane schietto ci vuole qualcosa di più dell’appetito, ci vuole un po’ di fame, e per essere schietto il pane deve essere qualcosa di più che pane e basta, deve essere un pane buono, così buono da non avere bisogno di nient’altro. L’ho sentito dire da gente presa dalla fame buona, la fame di chi ha lavorato duramente e n’è uscito salvo, è passato davanti alla buttega, ha sentito l’odore del pane e se n’è comprato un filone, non serviva nemmeno che avesse i soldi in tasca, alla buttega c’è il libretto per segnare il debito. E se ne sazia senza nemmeno aspettare di arrivare a casa, se lo prende a morsi per strada; a casa basterà che ci sia un bicchiere di vino per mettere al suo posto il filone; non sarà un granché, in casa del contadino non ce n’era di quello buono, non erano tempi di enologia. Tempi di arretratezza, detto schiettamente.