Sono molto poche le parole che abbiano fatto così tanta strada mantenendo la loro integrità, la loro purezza, la loro verginità insomma; i sumeri settemila anni or sono dicevano puru, cinquemila anni dopo i latini purus, oggi ciò che rimane del loro dominio si divide tra pure, pur, puro. Puru e poi purus, vergine, e cioè vitello e vitella, i giovani, incontaminati vitellini destinati al sacrificio, all’olocausto rituale. Ma siccome nulla è mai perduto, compresa la verginità, puru si trasferisce in sanscrito punati, purificare, è così difficile mettere la mano sul fuoco in fatto di purezza che si è provveduto alla impellente evenienza del ripristino. Che ha il suo strumento elettivo nel fuoco, non c’è come il fuoco che purifichi, e così da puru si passa a furu, fur, feuer, fire, fuoco. A me tutta questa storia della purezza non piace un granché, non mi piace scannare vitelli, non mi piace dar fuoco agli impuri, e non ho in gran considerazione la verginità, men che meno a uso sacrificale; canto ancora con passione che dai diamanti, dalla forma più pura e rara e preziosa che assume il carbonio in natura, non nasce niente. La verginità, come la purezza, è solo questo, merce di valore nello scambio di beni, tanto più preziosa quanto ne è più ambito il monopolio, che si tratti di trafficare in uranio o in umani. E in definitiva, come per tutte le merci, una menzogna, neppure i diamanti, l’uranio e l’eroina sono puri al cento per cento, e della loro purezza se ne calcola, con una certa approssimazione, solo il suo grado.