Mi chiedono ogni giorno, da un paio di settimane in qua cento volte a giorno, perché hai quella faccia, sei spaventato? sei arrabbiato? sei malato? sei deluso? sei sfinito? sei frustrato? sei impazzito? No, non è niente, ai tempi belli sì che ero pazzo, disilluso, frustrato e furioso, ora è solo che m’ha preso una gran melanconia. Dal greco, melankholia, bile nera. Ora il mio animo è intinto nella bile nera, il mio corpo fatto di scura terra secca e fredda, il mio tempo l’autunno, tale e quale ben descritto da Ippocrate e conseguentemente filosofato da Aristotele nei suoi ottocentonovanta stravaganti Problemata. Eccomi dunque, un melanconico alla greca, non trattabile con profitto froidianamente e neppure yunghianamente, non placabile con litio, litio carbonato, lyrica, depakin, neurontin, lamictal e correlati, la mia melankholia è classica, e versa la nera bile in tragedia. E allora la mia melanconica faccia non è deboscia, non vago sentimento di spossata nostalgia, non immobile e impotente tristanzuolità, ma la ponderata stasi che segue l’azione. Emulo del melanconico Aiace Telamono (cfr. Aristotele, Telemata) ho sterminato un gregge di pecore scambiandole per i membri del governo e ora cogito intorno al mio suicidio civile; seguace dell’ancor più melanconico Eracle (ibidem) ho massacrato i miei figli credendo di avere per le mani una folla di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, e ora mi sento un po’ in imbarazzo. Melankholia, la tragedia degli eroi in fallimento.