I latini dicevano mare sottintendendo che si trattasse di acqua amara, e a tal proposito è curioso che i greci usassero una sola parola, als, che declinata al femminile è mare e al maschile è sale. Ma la cosa più curiosa sta nell’origine di mare, che appartiene al continente, comune al gotico marei, all’antico tedesco mari, al celto e al gallico mor, all’antico slavo morje, al boemo more, lingue di gente che di mare ne vede poco e al più ne ha sentito solo un gran parlare. Così è forse sensato cercare l’origine di mare nel sanscrito maru, il deserto, la cosa morta, dalla radice mar, morire, piuttosto che nell’omonima mar per splendente, splendente come il marmo, ad esempio, o come il mare in certe giornate quando il maestrale lo marezza di infinite, scintillanti sfumature marmoree. Ma forse solo i fenici e i maori andavano per mare pensando di solcare lo splendente e non il deserto. Son o un rivierasco, guardo il mare e vedo quello che vedeva mio nonno, diceva: a cusi serva er mare che in se po’ bere? A niente, serva solo a partir. E non era contento; va per mare chi non trova sostentamento e protezione dalla terra madre, va per mare l’anima esule, e dall’esilio e non torna più, e se dicono che sia tornato è solo illusione, il mare restituisce un estraneo, un fantasma che restituisce dall’ignoto le sembianze di chi è partito. Guardo il mare e vedo un orizzonte incontenibile, e so che quell’orizzonte è l’esilio; sono un nuotatore, ma non mi inoltro per più di cinquanta bracciate, poi mi tengo la costa sott’occhio e bordeggio. La grand’arte di circumnavigare il deserto.