Dal latino labor, naturalmente, che sta per fatica. Ma la cosa davvero interessante è la sua antica radice in labh, che a sua volta è radicata in rabh, la quale sta per afferrare materialmente e figuratamente desiderare con forza, con volontà, agognare dunque, e infine impossessarsi. E questo ci induce a qualche riflessione sul senso del lavoro. Sembrerebbe infatti che, almeno in antico, il lavoro fosse sì connesso alla fatica, ma non fatica supina, non costretta, nemmeno eterodiretta, bensì la necessaria, ineludibile fatica che pretende un atto della volontà perché afferri, si impossessi dell’agognato bene, una fatica solo vincolata alle leggi della gravità universale. Incredibilmente, se ne deduce che al tempo delle antiche radici lavorare non fosse attività alienante, bensì desiderante. E, certo, in tal modo lavorare rende liberi, non nel senso dei cancelli di Auschwitz, ma perché libera la volontà dal peso del desiderio. Praticamente una cuccagna. Ah, mi sono fatto proprio una bella sudata, gioiscono la sera esausti e rilassati gli uomini di quel tempo. E se ne vantavano con i loro dèi, consci, seppur nel loro modo primitivo, di aver anticipato di molti millenni la fulminante intuizione spinoziana dell’uomo come animale desiderante. E a noi, a questo punto morto dell’infame storia della schiavitù universale al lavoro alienato che ce ne cale? Molto, perché potrebbe condurci là dove Carl Marx non è riuscito, a farla finita con la triste menzogna del lavoro che nobilita l’uomo, è l’uomo che nobilita il lavoro.