Forse dal latino gaudia plurale di gaudium, forse da joca plurale di jocum, che dal latino s’è sparso dalla Provenza alla Romania; in ogni caso la radice antica sarebbe gawedh, che ha a che fare con qualcosa di materiale tipo i piaceri del sesso e solo viaggiando nei millenni si è disincarnato nei piaceri dello spirito. È bello che la gioia sia plurale, è bello che sia fatta di materia, naturalmente è pure bello che si sia dispiegata nello spirito. Alla vostra cortese attenzione porrei l’errore, ferale, che in epoca moderna non distingue la gioia dalle gioie intese come gioielli, quelli non hanno niente a che fare né con Joca né con gaudia, ma vengono diritto dall’arabo giohar, scusate la latinizzazione, che significa pietra preziosa, gemma. Per cui l’idea che i gioielli diano vera gioia è solo frutto di pura e stupida confusione. Gioia, da quant’è che non vi viene in mente di dirlo, che ne so, ho provato una grande gioia? E di pensarlo? Difficilissimo persino immaginare tra due innamorati quel “gioia mia” un tempo non lontano così popolare da diventare sciapo. Gioioso, un corpo gioioso, un animo gioioso, quando mai. A pensarci è più facile sentirsi allegri che gioiosi, il che è tutto dire, in fin dei conti cosa c’è mai da stare allegri? E comunque gioia non è allegria, l’allegria è solo qualcosa dentro la gioia. Dentro quelle robe, quell’ineffabile, plurale materia fatta spirito, quel giocare a un solo passo dalla felicità, dal compimento. In fin dei conti la gioia non è che una promessa, ed è spiegato dunque perché questi non son tempi gioiosi.