Quando se la vedevano brutta i cittadini di Roma repubblicana si sceglievano un magistrato in gamba e lo eleggevano dictator, cosicché avesse non solo la libertà di dicere la sua, ma di dictare legge, le sue parole diventavano legge per il solo fatto di essere state pronunciate. Una sospensione della libertà in nome dell’emergenza, tipo il nemico alle porte; la dittatura non poteva durare più di sei mesi, da cui il leggendario ottimismo dei romani. Che poi si ricredettero nominando dittatore a vita quella merda di Lucio Cornelio Silla e accettando di buon grado l’autoproclamazione di quell’altro bel tomo di Gaio Giulio Cesare. Recep Tayyip Erdogan è un dittatore? Sì, lo è, perché non solo dice la sua, ma la detta, e il fatto che sia stato democraticamente eletto è nel solco dell’antica tradizione. A noi che ci piace dicere e decidee in libertà, i dittatori ci fanno schifo, senonché, quando a furia di dicere non si riesce a decidere, ecco che un dittatore ci farebbe comodo, almeno alla maggioranza qualificata degli elettori; lo chiamano l’uomo forte per non perdere del tutto la faccia, ma cercano proprio lui, quello che non dice ma detta. Dal punto di vista grammaticale, dettare non è che rafforzativo di dire, la radice remota di dire è deik, che significa indicare; dunque già nel dire è insito un atto di forza, nel dire puntiamo il dito su qualcosa o qualcuno che sia dentro di noi o fuori di noi. In effetti basterebbe sapere quel che si dice per non aver bisogno di dettare.