Dal latino tale e quale, cura. Ma le sue radici sono di un albero troppo antico per essere inequivoche. La più accreditata è dal sanscrito khu nel senso di battere, nel senso di darci proprio di martello, da cui poi prende la strada per accudere, che vuol dire forgiare, infatti da qui viene l’incudine che serve per quello. Che accudire sia un po’ forgiare ha un suo che, ma che curare sia in definitiva martellare bisogna pensarci un po’ su. Ma avendoci pensato, in fin dei conti cos’è la cura se non un dai e dai, un battere e ribattere?  Però khu può anche essere per guardare, osservare, da qui kav, kavi, che è il saggio, in latino cautus, e in cos’altro consiste la cura se non in un assiduo e saggio sguardo? Non è finita, perché c’è anche kur da mettere senza la acca, che è il cuore, in latino cor, e cor urat è che scalda il cuore, che lo conforta oppure lo consuma, a piacere. Così, sincopando, cor urat verrebbe cura. Come potergli dar torto, quale miglior cura che scaldare il cuore, confortarlo, e per troppa cura infine consumarlo? Io metterei tutto assieme. Visto che non si vede l’ombra di un vaccino, non ci resta che curare e curarci come possiamo; a proposito, la cura e il suo verbo sono attivi, passivi e riflessivi, curiamo, siamo curati e ci curiamo. Dunque curiamo e curiamoci teniamo caldo il cuore magari senza consumarlo, e non cessiamo di volgergli e di volgerci lo sguardo più cauto e più saggio che sappiamo. E infine battiamo e ribattiamo con la tenacia del fabbro sul tasto che tanto duole, osserva le prescrizioni, esegui gli imperativi, ora fallo.