Sono sinonimi, è sempre stato così sin dall’origine, coltivare, provvedere, curare, onorare, osservare, sia nel senso degli occhi sia nell’osservanza, ragion per cui quando il professor Di Maggio perorò, con successo, la mia bocciatura con la consueta formula “braccia strappate all’agricoltura” solo perché era un asino non si rese conto di preannunciarmi una carriera da culturame, o uomo di lettere come si diceva con il maggior garbo che la giovine repubblica imponeva, dato che le braccia avrebbero fatto la medesima cosa del contadino, salvo cambiare di attrezzi, come del resto cambiano gli attrezzi dell’agricoltore se cura vigne o carciofi. Dato l’argomento, le antiche radici sono inquiete; probabilmente la più antica è ku, battere nel senso del martellamento, e ci sta perché cultura, coltura e cura sono in definitiva esercizio del dai e dai e dai. Da lì l’accadico kullu, curare, provvedere, offrire, e quindi kalu, tenere in custodia trattenere, avere riguardo, e già da qui il contadino accede all’agitarsi dello spirituale, tant’è che allo stesso gruppo semantico appartengono sorprendentemente kwei, kwoi, kwi, sono inquieto, abbattuto. Perché no? Va solo deciso se la cultura, la coltura e la cura generano inquietudine e abbattimento o provvedano al riguardo, ma credo che rimanga una scelta soggettiva e squisitamente dettata dalle provvisorie contingenze. Ma rimane che farsi una cultura o farsi u orto, spargere cultura o spargere sementi, sono da sempre lo stesso mestiere.