Raccogliendo in un immodesto banchetto i coniugabili a rigor di legge, ho sancito nel consueto modo anche questa ultima volta la cessazione dell’anno in corso. Anche se non frugale è pur stata una cerimonia che ho sbrigato alla svelta, intorno alle ventitré, ora dell’Europa centrale, ho chiesto, supplicato, e, date alcune resistenze, infine imposto il brindisi augurale di mezzanotte. Non se ne poteva più, davvero, di quest’ipocrita sceneggiata dell’attesa dell’ora fatale, del minuto secondo finale, dello scoccare digitale e del botto analogico, a voler restare svegli si cambiasse canale su una bella serie tivù, se no e meglio, si andasse a dormire che con una bella dormita passa tutto. E forse passa anche l’anno, che altrimenti quest’anno qua ci rimane appiccicato alle mani, per non dir tra le palle, anche a bombardarlo di champagne, ad asfissiarlo di cotechini, a dargli fuoco con i trik trak. Perché l’anno è la stressa cosa dell’anello, annus, anulus. Dicevano bene i vecchi sumeri aknus, l’anno è un tondo, il tempo che si piega in cerchio e si chiude. E anche a credere ai vecchi babilonesi adoratori di Annum, il dio del cielo, cos’è il cielo, il vasto firmamento attorno a noi meschinelli, se non il tempo che si chiude in sé stesso alla velocità della luce? E qui non s’è chiuso un bel niente, tutto è in sospeso, per quel che se ne vede quest’anno potrà anche durare in eterno. Per quello nuovo hanno fatto un DPCM, c’è da ridere