Il rigore, il rigor, è sempre una gran brutta cosa, sia che si riconduca ad un’antica radice indoeuropea in rag, sia al greco rigos, sia, come sostiene il santissimo Devoto, un’altra delle parole isolate, inventata di sana pianta dai latini. Perché è sempre e comunque qualcosa di freddo, di duro, di rigido, di estremo nel suo esserlo. Una cella di rigore, il rigore di un inverno, un calcio di rigore. Non c’è niente che possa piacere nel rigore, a meno che a infliggerlo non sia una mente sadica. A meno che a subirlo non sia un masochista. Ce ne sono degli uni e ce ne sono degli altri, e a volte si incontrano e vivono infelici e scontenti ma paghi. Non ce ne sono nei campi di calcio, se non in rarissimi casi di sociopatici conclamati, e chiunque abbia dato anche solo qualche calcio al pallone sa che calciare e parare un rigore sono prima di tutto una tragedia, un dolore, una sofferenza equanimemente condivisa. Io che, seppur nella mia remota giovinezza, mi sono trovato nella cruda contingenza di sottostare all’estrema punizione, ne ho riportato un trauma mai risolto, e per questo non guardo mai l’esecuzione di un calcio di un rigore. Direte che mi son perso il meglio domenica scorsa, ma io non riesco a crederci. Tutto il meglio è venuto prima; nessun gioco dovrebbe poter finire lì al dischetto, nessun ragazzo dovrebbe poter far così male e riceverne così tanto, nessun umano dovrebbe essere ridotto a considerare che il meglio di sé lo deve cercare nella cattiveria, nell’astuzia, nella fortuna.