Sono in vacanza, vacante, assente, un gran privilegio. Non più le sei, ma aspettare le otto per le radio notizie, non le otto ma le dieci passate per aprire il giornale, parlare del tempo ma del tempo di Dacca col venditore ambulante di gioie di puro argento del Bengala, ha perso la casa con l’ultimo uragano, ma non dispera di tornare con quanto basta per le assi di un nuovo tetto, potrei prendergli un bell’anello e garantirgli almeno dieci chili di chiodi. Fare sosta da Titti il pesciaiolo, godersi l’esotica inflessione dei rivieraschi del Bracco, ha delle acciughe così sode, vigili e brillanti che mettono un po’ di spavento, tutt’e assieme in una cartata da un chilo potrebbero saltarmi agli occhi appena sentono l’odore di padella; mi ha promesso di trovarmi un luasso, sul luasso io e a Titti non siamo d’accordo, per lui è solo un branzino, ma non è così, il luasso è un branzino innamorato. Lo si riconosce a prima vista dallo sguardo palpebrato e attonito alla Errol Flinn; per questo è in via d’estinzione, gli innamorati sono voraci ma fragili, abboccano all’amo se solo sbarluccica un po’. I bagni San Giorgio risplendono nel loro antico e inveterato stile genoano, sono talmente genoani al San Giorgio che il pallone lo chiamano football, io che sono doriano posso adire a un ombrellone solo perché sono larghi di vedute e indulgono nell’illuministico lume della tolleranza; al baretto si forniscono di una focaccia così colma di dignità che si può senza timore alcuno accostarla di prima mattina al cappuccino, massima espressione della libidine rivierasca, intanto nella veranda c’è gente che legge libri e giornali, questa riviera non è la repubblica delle banane. Dicono che tra gli ombrelloni si è acquattato qualche ministro del tempo che fu, a me pare dia riconoscere solo un parlamentare, è lì accovacciato nel suo lettino bianco come uno straccio e sta smanettando con la lingua tra i denti nel suo mega cellulare, e avanti popolo. Nell’ombrellone accanto una strumena di bambinelli sta erigendo una capanna di asciugamani, hanno l’aria compita e grave, uno, avrà sei, sette anni, sta spiegando a uno un filo più anziano “io sono il più grande e i miei genitori non mi amano”, l’altro asserisce compreso, “non mi amano nemmeno a me”; dal folto di un telo si va avanti una bambina piccina piccina picciò, ha ancora il pannolino, e con la sua vicina piccina piccina picciò proclama “invece a me mi amano tanto”. Vorrei tanto portare qualche parola di conforto ai più vecchi, ma non mi viene in mente niente di sensato, in fin dei conti sono assente, sono in vacanza.
Il Secolo XIX, 29 luglio 2018