La povertà, quella vera, la povertà nera dello schiavo della miseria, non sta nella semplice mancanza di soldi, ma nella cruda assenza di libertà, libertà di emanciparsi dalla condizione di misero. Secondo gli standard sociometrici, io sono nato in una famiglia povera e povero sono andato avanti per un bel pezzo, eppure io la parola povero non l’ho mai sentita pronunciare e povero non mi sono mai sentito, né l’ho percepito in mio padre, in mio nonno, in nessuno della mia vasta famiglia. Il fatto è che non ci mancava niente di ciò di cui pensavamo di avere bisogno, niente di ciò che contava davvero, ci nutrivamo tre volte al giorno, ognuno disponeva di abiti senza toppe evidenti e ben puliti, abitavamo una casa dignitosa e accogliente, e tutti proteggevano ciascuno e ognuno poteva sostenersi all’altro. E, infine, io avrei studiato, il pronipote, il nipote, il figlio, sarebbe stato il primo della famiglia a fare le scuole, su, su fin dove fosse arrivato il suo ingegno, riscattando la sua famiglia dalla servitù dell’ignoranza che l’aveva costretta alla subalternità e all’arbitrio dei potenti; così che io non mi sento e non sono figlio della miseria, ma figlio della speranza. Perché questo potesse accadere, e perché ci si nutrisse e vestisse e la domenica d’estate si potesse andare in Vespa al mare e il sabato d’inverno al cinema, perché ci si potesse curare nella malattia e per il mio compleanno avessi un regalo, la gente di casa mia, uomini e donne tutti, lavorava dieci, dodici ore al giorno, nei campi, in fabbrica, in casa; la loro è stata una fatica che produceva cose utili e ben fatte, una fatica colma di dignità, consumata non per sopravvivere, ma per vivere, pienamente, erano tutti lavoratori. È per questo che il lavoro rende liberi, per questo la Repubblica è fondata sul lavoro e non sui pacchi dono, non sulla misericordia delle elemosine; perché dare soldi ai poveri non li affranca dalla servitù della miseria, non dà loro dignità di uomini liberi, li lega, almeno finché durano i soldi, a un destino di inane sopravvivenza, all’inanità della sudditanza alla pubblica carità. È per questo che le masse plebee chiedevano solo pane e i cortei dei cittadini pane e lavoro.
Il Secolo XIX, 14 ottobre 2018