Con i giochi bisogna andarci piano, c’è stato un gioco che mi è stato fatale. Avevo dieci anni e era la sera della vigilia della mia prima comunione, la Patri, che abitava dall’altra parte del cortile, è venuta con sua mamma a farsi vedere il vestito bianco di tulle perché anche lei faceva la santa comunione; insomma, c’era una gran agitazione e a forza di agitarsi, mentre le nostre mamme se ne stavano in cucina a chiacchierare, io e la Patri ci siamo messi in camera a giocare ai dottori, approfonditamente. La cosa ci ha calmato assai, salvo poi realizzare l’indomani mattina mentre venivo allestito con vestito in principe di galle e cravattino grigio perla per degnamente recarmi a ricevere il sacramento, di trovarmi in orrendo peccato mortale; toccare lì e viceversa era il peggiore dei peccati che facevano piangere la madonna. Che fare? nessun pronto soccorso per la mia anima nera a mezz’ora dall’inizio della cerimonia, anche a trovare un confessionale aperto, come potevo dire l’indicibile senza essere scomunicato? Così ho buttato giù l’ostia consacrata e mi sono fatto sacrilego e mi si sono spalancate le porte dell’inferno, tutto per un gioco. Ho passato la mia fanciullezza e buona parte di una tormentata adolescenza angustiato dalle evenienze delle pene eterne, mi sono dovuto fare ateo per metterci una pezza, e tuttora non sono così sicuro che tenga. Ora mi si dice che tra i bambini il gioco del dottore non è più popolare, mi riferiscono che, accedendo liberamente a copiosa documentazione, è tra loro assai più diffuso il giuoco del pornodivo e della pornodiva. Anche se non così complesso come quello del medico, la pornografia è un lavoro, non un gioco, e il lavoro rende liberi non peccatori; così, superata la terrorizzante dottrina preconciliare, sulla definizione di peccato si tratta con umana larghezza e comunque la madonna non piange di certo per gli innocenti e istruttivi trastulli corporali. L’infanzia e l’adolescenza filano via lisci senza il trauma delle pene infernali, seguendo il pensiero di J.P. Sartre, l’inferno è già qui.
Il Secolo XIX, 15 luglio 2018