Sabato scorso era una giornata splendida, ancora più promettente del 25 Aprile, una primavera smagliante, un po’ ventosa, ma le primavere devono pur essere ariose; così ho preso su la bicicletta e invece che addobbarmi con i soliti quattro strati di indumenti altamente termotecnici, ne ho messi solo tre, così che in capo a tre ore ero a casa devastato da sinusite e bronchite. Sono ancora qui che respiro grazie e tre diversi presidi farmacologici e una bella pezza di lana calda imbevuta di balsamo nel petto, va già bene che oggi almeno non goccio sulla tastiera. La verità è che sono deplorevolmente cagionevole, e ho maturato il fondato sospetto di appartenere a una specie ormai segnata da un’angosciante cagionevolezza, visto che ogni volta che confido i miei malanni al medico di famiglia, mi informa, esclamativo e sconsolato, di qualunque malanno si tratti e in qual unque stagione è contratto, ce n’è pieno in giro. A tal proposito voglio provare un giorno ad andarci dal medico e con le lacrime agli occhi confessare, dottore ho la peste, sono ragionevolmente sicuro che mi consolerà con il suo ce n’è pieno in giro. Ma nella mia afflizione della mia ultima gita in bici conservo un’immagine bellissima, struggente, i papaveri. Papaveri rigogliosi come non mai, rossi come vessilli trionfanti, e alti, svettanti, ovunque sulle ripe, ai bordi delle stradelle, ai margini dei coltivi, chi li ha mai visti dei papaveri così. Che sono la pianta floreale più delicata che c’è, che erano dati ormai per estinti, ci son stati anni che a vederne tre assieme era ragguardevole miracolo. Certo, in mezzo al grano, come l’antica tradizione iconografica vorrebbe, non ce n’è neanche l’ombra, i pesticidi fanno ancora il loro mestiere di sicari; ma non lo fanno più così bene, perché adesso sono tutti lì, sul ciglio del campo, affollati e sprezzanti, eretti e pronti alla contesa. Per niente cagionevoli, niente affatto recessivi, si stanno adattando alla sorte avversa, avendo imparato a difendersi non tarderanno a predisporsi al contrattacco. Saranno in buona compagnia, dei granchietti che dopo mezzo secolo sono tornati al fosso dove finisce non poca dell’urea che fertilizza la vigna, e dell’istrice, grosso e pasciuto come un sultano, che ha fatto tana nelle interiora della quercia sopra il fosso e i granchietti se li sbaffa. Per non dire delle lucciole, sia pace eterna per Pier Paolo Pasolini, che la loro battaglia l’hanno vinta ormai da un pezzo e già in questi giorni stanno facendo della ripa delle ginestre le mille luci di Manhattan. Tossisco, scaracchio, starnuto, e considero che sì, la specie umana arreca un gran male al pianeta, ma il più del male lo fa a sé stessa, visto che, nonostante e in virtù dei suoi potenti mezzi, non è in grado di resistere efficacemente al mondo che ha creato e sembrerebbe dominare. Razza dominatrice eppure cagionevole, votata alla tragica e ridicola fine degli alieni della Guerra dei Mondi. Dottore, mi sento una gran debolezza. Eh, cosa vuole, ce n’è pieno in giro.
Il Secolo XIX, 5 maggio 2019