Sembra che non ci si possa astenere, e allora lo faccio anch’io si dire la mia sull’11 settembre di vent’anni fa. Non farà analisi, le hanno già fatte tutte, non trarrò conclusioni, di conclusioni non ce n’è, la storia non finisce mai, e nemmeno una morale, quella la lascio a chi la sa lunga, ma lunga davvero. Racconterò solo una piccola storia. Era una splendida giornata quella qui in Liguria, e forse lo era in tutto il mondo, senza rimorsi per il lavoro mancato me n’ero andato al mare a farmi un bagno di prima mattina nell’acqua ormai nettata dai reflui turistici d’agosto, l’avevo fatto anche il giorno prima se è per questo, la famosa qualità della vita di un rivierasco. Tornarsene a casa nel meriggio era un piacere, le buone case a settembre sono già fresche se si sta attenti con le persiane, e massimo del piacere, oziare ancora un paio d’ore dopo pranzo sonnecchiando a guardarsi un vecchio film alla tv, promo canale, allora la RAI dava ancora questo servizio essenziale. Poi, quel giorno, senza avviso alcuno il western s’interrompe, uno sbaglio della regia perché ne comincia un altro e non dall’inizio ma nel mezzo. Un film del genere catastrofe. Un film ho pensato io, e con me, sono sicuro, alcuni milioni di umani dediti al sonnifero della tv pomeridiana, un remake della Guerra dei Mondi di Orson Wells, chi se l’era dimenticato quel capolavoro. Poi è andata come è andata, a svegliarmi è stata la telefonata del direttore di questo giornale, accendi la televisione, la televisione ce l’avevo già accesa. Quando una tragedia è troppo grande non la si può né pensare né guardare tutta assieme, ma solo a piccoli pezzi, a particolari. Il mio piccolo pezzo era una mia amica, la leggendaria Ida, una ragazza adorabilmente folle e geniale, laureata con una tesi ovviamente folle e geniale, il suo paese l’aveva gratificata con un impiego serale da sguattera e la vendita mattutina di enciclopedie porta a porta. Se n’era partita dieci anni prima con in tasca un biglietto di sola andata per Dublino e tanto per poter sopravvivere un paio di settimane in quella che era allora la città promessa per i giovani talenti d’Europa; la sua folle genialità se l’erano contesa le grandi corporation dell’informatica che a Dublino avevano la sede esentasse, e infine, quell’anno, quel settembre, quel giorno, era a Washington D.C. come alto funzionario della Banca Mondiale, ancora intatti il suo genio e la sua follia. Ho telefonato tre giorni senza risposta, al quarto l’ho ritrovata la mia leggendaria amica Ida, e mi ha raccontato questa piccola storia. La sede delle Banca Mondiale è a due passi dal Pentagono, lo schianto dell’aereo lo hanno sentito come un indicibile tuono, si sono spente tutte le luci, i cellulari e ogni cosa intanto che un altoparlante ordinava di dirigersi tutti verso l’atrio centrale; l’atrio era immenso e tetro, più di mille impiegati se ne stavano in silenzio senza sapere e senza capire. Così per ore, finché non si son trovate delle radioline che hanno preso a esalare qua e là per l’atrio quello che era successo, quello che stava succedendo, finché l’altoparlante ha annunciato che chi avesse avuto famiglia poteva raggiungerla. E nel grande atrio sono rimasti in due, il numero tondo dei senza famiglia, quelli che non avevano nessuno da raggiungere, da rassicurare, da consolare ed essere consolati, Ida e Nohandas. Mohandas era un giovane indiano del Kerala, non si erano mai visti prima. E lì, nell’atrio deserto nel mezzo dell’11 settembre del 2001 si sono guardati, si sono presi per mano e si sono innamorati, perdutamente. Un grande amore che è durato tutta la vita, finché la vita è durata. Ida, la leggendaria, pazza geniale Ida è morta in un ospedale di Kollam. Nell’ultima sua fotografia che mi ha mandato, veleggiava su un deltaplano sopra una smagliante foresta tropicale.