Zona Rossa, Domenica

Questa mattina sono tornato nella Zona Rossa per partecipare con esemplare gesto by partisan alla manifestazione degli Otto. Per rientrare ho fatto un giro lungo; ho voluto avere ben impresso e vivo nella mente ciò che nella città di fuori tra Albaro, Torralba e Foce è costato ieri ciò che di buono questa mattina si saprà dalla voce del Presidente di turno del G8, onorevole Silvio Berlusconi. Già alle sette di mattina molto è stato pulito e portato via, ma non si è fatto in tempo a cancellare la desolazione dell’unico essere umano che incontro per strada, un giovane uomo che guarda immobile per un tempo infinito la devastazione della sua via e del negozio sotto casa come se non sapesse risolversi di vivere nella realtà. Passo anche dalla scuolaa Diaz, dove questa notte le forze dell’ordine si sono prese la loro vendetta. Guardo il sangue sui termosifoni e mi chiedo se quel sangue vendichi questa città e se questa città abbia mai chiesto vendetta oppure si aspetti giustizia. Questa città, la Città Fuori da quel sistema di sicurezza perfetto, da domani esportato in tutto il mondo, che ha permesso ai grandi di lavorare in santa pace.
Vado alla Sala Stampa per prendere atto di tutto questo lavoro. Non ci ho mai messo piede, avendo scelto di essere cittadino residente e non giornalista accreditato. Mi sono perso qualcosa: mai vista in vita mia tanta tecnologia mediatica concentrata in un posto più chic e tante menti mediatiche meglio assistite. Mi basta solo dare un’occhiata al buffet per capire che comunque vada, sarà un successo.
Ci sono più di mille giornalisti ad aspettare il Presidente, si stanno tutti bruciando i neuroni appiccicati ai cellulari. Capto lacerti di danese, di greco, di inglese, di tedesco. Da quel poco che posso capire ho l’impressione che si stiano occupando dell’altrove, del di là, di ciò che sta succedendo in Questura e alla Diaz. Una reporter televisiva giapponese non più alta di Barbie sta supplicando un’interprete per essere portata alla Diaz. L’altro giorno l’ho vista al varco di Piazza Dante con un elmetto da operaio siderurgico in testa farsi sotto a riprendere le cariche di là dalla rete.
Ma ecco il presidente, e i giornalisti si sono fatti disciplinata platea silenziosa. Il presidente è cordiale e impeccabile, compreso nel ruolo ma anche vicino. Spiega che in questi giorni ha visto con i suoi occhi gli americani baciarsi con i russi, i francesi con i tedeschi; non sazi, gli americani hanno baciato anche i giapponesi, nonostante il grande successo del film su Pearl Arbour. È stata fatta la pace tra i grandi, e ora che il comunismo è morto si avvererà la profezia: il lupo si giacerà accanto all’agnello, il leoncello alla giovenca. Accanto a me un signore compito di una testata inglese rifila al suo vicino una gomitata così franca che quello sta lì per svenire. I grandi hanno altresì appurato che per via del libero mercato basterà aspettare un po’ e non ci saranno più poveri in giro per il pianeta. Per intanto si sganceranno parecchi miliardi per la piaga delle pandemie che stanno decimando l’Africa. Nella fila davanti alla mia sento commentare a voce non troppo bassa nell’inconfondibile francese di Parigi che stanziare miliardi non fa male a nessuno. Per quanto riguarda l’ambiente bisognerà pur fare qualcosa, e il presidente si impegna in prima persona, visto che i grandi si dividono ancora e vogliono rifletterci su. Brusio di disincantata saudagi in platea.
E poi domande e alla fine buffet. Quanto è costato al mondo, quanto a Genova questo pur parler dei potenti?
Scendo nell’atrio quando giornalisti e addetti vari si stanno spintonando a centinaia per accaparrarsi quasi gratis cellulari Nokia al banco Wind. Mi metterei volentieri in fila se ci fosse una fila e non una ressa: è davvero un affare. Trovo in un angolo una confezione G8 di Pasta Barilla lasciata incustodita; l’arraffo e me ne vengo via.
Fuori stanno smantellando i varchi. Mi affaccio in San Lorenzo e scopro che all’improvviso, un istante dopo che i grandi hanno smammato, tutta la Genova scomparsa e sfollata si è riversata per strada. Genovesi sotto il cielo azzurro: pochi con il naso all’insù, quasi tutti con il naso all’ingiù. Non so se per tristezza, o per evitare ciò che ancora rimane delle cacche dei cavalli da guerra.

Secolo XIX, 22 Luglio 2001