Wagner e Volkswagen
The Wire è attualmente la serie tv a cui affido il compito di sobbollirmi ben bene il cervello. Al punto in cui siamo della terza stagione, il capo della polizia di Baltimora ordina ai suoi ufficiali di abbassare notevolmente il numero dei crimini commessi in città, e qualora non potessero riuscirci con i fatti si ingegnassero di farlo con le carte, addomesticando i numeri delle statistiche magari declassando un omicidio volontario a colposo, una tentata rapina in uno scherzo tra amici. Questo perché le elezioni sono vicine e il sindaco in carica vuole essere riconfermato da una cittadinanza rassicurata. Come andrà a finire a Baltimora non si sa, mancano ancora due stagioni intere al compimento della nemesi, ma immerso fino al collo come sono nella filosofia di Wire ho la ragionevole certezza che in un modo o nell’altro alla fine i marioli la passeranno liscia, o con il minimo danno possibile, e a rimetterci sarà la città di Baltimora. Mentre mi ammorbidisco il cervello alla tv, ecco che s’incendia il caso VW, e nella semicoscienza indotta dal potente ipnotico del medium mi svolazza per la testa una junghiana sincronia tra Wolfsburg e Baltimora, tra i trucchi della polizia e quelli dei tecnici, tra la sete di potere del sindaco e la sete di denaro del consiglio di amministrazione. Ma è questione di un attimo, una fatua fascinazione, Wolfsburg non è Baltimora. Baltimora è una problematica città portuale segnata da crisi economica, problemi interrazziali, e con il record di delitti, sette volte superiore alla media nazionale. Wolfsburg è una città giardino, una delle pochissime città, non quartiere o borgo, d’Europa realizzate sui principi della Carta di Atene. La volle così Adolf Hitler perché fosse abitata “con gioia” dagli operai e dai tecnici che avrebbero costruito la sua desiata auto del popolo, realizzata con “la forza attraverso la gioia”. Non conosco Baltimora ma Wolfsburg sì, ci sono stato diverse volte, ed è davvero una bella città, dove tutti possono vivere bene e ordinatamente attorno alla fabbrica dove tutti lavorano; bella anche quella, tutta linda, legno e vetro, circondata da fluidi canali, magnifici musei e uno strabiliante planetario, tutto quanto a sue spese. Il clima non sarà un granché, ma dei molti italiani che ci lavorano e ci hanno lavorato per generazioni, non ne conosco uno che abbia mantenuto la promessa di tornare a invecchiare in Italia. Ma in quanto a diversità questo è il meno. Il più è che la VW di Wolfsburg non è il sindaco di Baltimora, e i tedeschi non sono americani, e persino gli italiani di Wolfsburg non sono italiani, ma quasi quasi più sassoni dei sassoni. E così ho la ragionevole certezza che a Wolfsburg le scandalose vicende non finiranno come a Baltimora.
I tedeschi non hanno una buona serie tv che li descriva, loro hanno per sé un altro genere di racconto, hanno un ciclopico romanzo, una sterminata canzone, hanno Der Ring, l’anello del Nibelungo, che è la rappresentazione drammatica loro mito identitario, la saga del loro destino. Richard Wagner ci ha messo trent’anni per ordinare, scrivere e musicare le ancestrali leggende teutoniche; ha cominciato il primo capitolo, l’Oro del Reno, quando nel ’48 a Dresda era sulle barricate assieme a Bakunin e ha finito l’ultimo, il Crepuscolo degli Dei con i principi e i ministri di mezza Europa che facevano la fila per andarlo a sentire. Der Ring è un racconto di una tale potenza, il suo mandato è talmente prezioso che hanno fatto a botte in tanti tra i potenti per prenderselo per sé e rigirarlo a propri tornaconto, Hitler compreso, ma è stato ed è cosa esclusiva del popolo tedesco, sua proprietà. Cosa racconta al popolo questa sua sterminata leggenda musicata? Dice che il mondo è dominato dal potere dell’oro, che l’oro è solo che rubato e ogni potere è possesso usurpato, e quel possesso è una forza maledetta che semina morte e distruzione fisica e morale. Dice che ci sono gli innocenti nel mondo, e ci sono innocenti che combattono il potere, lo fanno coscienti di un dovere da cui non possono esentarsi, ma dice anche che nessun uomo è del tutto innocente, lo è abbastanza per poter vincere la guerra alla fine, se lo vorrà con tutte le sue forze, ma non per sopravvivergli. Il trionfo degli innocenti, la redenzione dell’umanità, è nell’immane incendio che ridurrà in cenere l’ordine costituito ma anche loro stessi. E oggi? Se un po’ li conosco, so che i tedeschi sanno riconoscere a prima vista nell’amministratore delegato di VW il malefico gnomo Alberich, e nella signora Merchel l’equivoco e contradditorio Wotan, e sanno anche di avere il dovere di farsi Sigfrid e Brumilde. Diversamente non saprebbero più riconoscersi. Loro sanno molto bene cos’è la vergogna e sanno altrettanto bene di non poterci vivere nella vergogna, lo hanno già visto e patito. Più ancora di come andrà a finire la terza stagione di Wire, sono qui che aspetto di vedere come andrà a finire a Wolfsburg, credo proprio che sarà qualcosa di più interessante.
Il Secolo XIX, 27 settembre 2015