Universitari
Se entrate alla Facoltà di Lettere e date una sbirciata alla bacheca degli annunci degli studenti troverete un notevole stock di divine commedie in vendita d’occasione. Appartengono agli studenti che hanno superato l’esame concernente e che ora di quel testo non sanno più che farsene e con quello che gli ha fatto patire prima se lo tolgono di torno e prima possono riprendere a sperare nella vita e precipuamente nella carriera universitaria. Chi fosse interessato può portarsi via la Divina Commedia per due soldi, in fin dei conti è un pezzo di carta che in casa può sempre servire. A me vengono in mente antichi ricordi. La prima è che finché ne ha avuto la potestà mio padre mi ha menato sul serio due volte, la prima perché mi ero a mia volta menato per futili motivi con un ragazzino staccandogli di netto un neo, la seconda perché mi ha sorpreso nel tentativo di trafugare da casa la Divina Commedia di famiglia. Già, avevo in programma di venderla e finanziarci un viaggio clandestino a Verona dove mi attendeva un’amica, avevo diciassette anni. Quello era un bellissimo volume, in quarto di foglio e illustrato a piena pagina dal celebre Gustave Dorè, edizioni Sonzogno per il Popolo 1894, acquistato a rate da suo nonno, che aveva fatto la terza elementare ma sapeva leggere correntemente. Mio padre ha frequentato cinque anni di scuola elementare e tre di scuola militare, della Divina Commedia conosceva a memoria gli episodi più popolari. Adesso quel libro è qui sopra la scrivania e sono contento di non essere riuscito a venderlo. Non è facile da leggere, non lo è per me e men che meno per i miei nipoti, bisogna applicarcisi un po’, ma leggendolo si fa presto a capire che è un testo imprescindibile, fondativo, un romanzo di popolo, il luogo di nascita di una lingua nazionale, tanto per tenersi bassi. C’è stato un tempo che lo capivano anche i contadini. Se ora non ce la fanno a capirlo gli studenti che intendono laurearsi in lettere e presumibilmente vogliosi di essere al più presto cooptati per dedicarsi tra l’altro all’insegnamento retribuito dell’opera dantesca, vuol dire che, nonostante l’opposta stima, in questo Paese ci sono troppi giovani che passano il loro tempo nelle università. Troppi o quelli sbagliati.
Il Secolo XIX, 9 ottobre 2016