Tenere vivo il fuoco
Come si fa a non parlare di questo Francesco, papa della chiesa di Roma? Non c’è giorno che non dica e non faccia qualcosa su cui non valga la pena, non dico di concordare, ma almeno di riflettere. Dice e fa dotato di evidente carisma, che sia quel carisma dono della grazia divina o dote della sua umana forza d’animo, un carisma che non abbisogna né dell’alterità, né della ieraticità che parrebbero gli accessori d’obbligo per allestire una figura autorevole, ma, come dire?, un carisma domestico, che induce a parlarne mentre si cena, o passeggiando, anche nei giorni feriali e non solo la domenica. E si può non essere cattolici, e si può non essere credenti, ma a ogni suo discorso si ha l’impressione, almeno per noi che ascoltiamo e parliamo nella lingua italiana, di ascoltare l’unico intellettuale che assolva al dovere, quotidiano, di prendere posizione sui temi veri, cogenti, dirimenti della vita personale e sociale degli umani e non solo dei cattolici. A volte viene da pensare addirittura che sia l’unico intellettuale vivente che si esprima in lingua italiana. A meno che non si vada a sfogliare le pagine interne dei giornali per appassionarsi al dibattito sulla vera identità sessuale di uno scrittore o scrittrice che non si chiama manco Tolstoj ma solo Ferrante. Adesso questo papa di Roma se n’è venuto fuori, in un’intervista alla televisione non in un concistoro di cardinali, che mah, ha l’impressione che non durerà tanto, e il giorno dopo ci schiaffa lì un bell’anno santo straordinario per mobilitare i cattolici di tutto il mondo sul tema della misericordia. Misericordia, aver cuore per le miserie e per i miseri. Aver cuore, non la manina che sgancia l’elemosina o le buone intenzioni per andare a letto tranquilli. Vedremo cosa succederà.
Non è però di questo che voglio dire, ma di una frase che mi ha molto colpito nel suo discorso ai militanti di Comunione e Liberazione riuniti in piazza san Pietro l’altro sabato. In effetti non è stato un discorso granché misericordioso, questo papa non deve essere in gran simpatia con il movimento che ha inteso cristianizzare lo Stato riproponendo lo scandalo di papa Silvestro e dell’imperatore Costantino nella forma minore del celeste Formigoni e del presidente Berlusconi. Credo che abbia simpatia per don Giussani, il fondatore di CL, senz’altro uomo di grande carisma. Di questo parla e cito l’intero capoverso, mai estrapolare ad arbitrium, anche se è il finale a interessarmi particolarmente:
“E poi il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire “pietrificarlo” – è il diavolo quello che “pietrifica”, non dimenticare! Fedeltà al carisma non vuol dire scriverlo su una pergamena e metterlo in un quadro. Il riferimento all’eredità che vi ha lasciato Don Giussani non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione, ma fedeltà alla tradizione – diceva Mahler – “significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri”.
Tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri. Per inciso il papa cita non un dottore della chiesa, ma un musicista, un musicista di origini ebree e agnostico di elezione, ma questo è solo un particolare irrilevante, almeno lo è per lui. Quello che conta è l’urgente verità che questa citazione esprime con grande semplicità e sinteticità. Una verità che è per tutti, i ciellini ci facciano poi quello che credono. La verità che nell’epoca della spoliazione della memoria, l’epoca dell’amnesia di massa come strumento di potere, l’epoca della tristezza universale del dominio di un eterno oggi, la memoria della tradizione ha una forza progressiva straordinaria. L’avrebbe, se, per l’appunto, il riconoscimento della tradizione e la fedeltà agli elementi fondanti delle tradizioni, fossero praticati con spirito vitale, con gesto di libertà. Il lavoro dei progressisti dovrebbe essere quello di attizzatori di braci mai spente che ritornano fuoco. Ma nell’epoca dove la parola è di uomini privi della grazia di un carisma, uomini senza luce che le braci non illuminano, il portare memoria della tradizione è puro esercizio di un pietrificato culto dei morti, e della morte. Adorazione elle ceneri. E quando penso alla tradizione, non distinguo tra la tradizione democratica del Paese e quella del pranzo domenicale in famiglia. Che senso ha nell’epoca delle demo-dittature, rifarsi alla tradizione democratica se non sappiamo, o non vogliamo, farne un fuoco che arde, materia magmatica in continuo mutamento? Nell’epoca delle parcellizzazioni, e delle disgregazioni, delle cellule sociali, che senso ha ritrovarsi ogni domenica a guardarsi in faccia senza sapere, o volere, dire una parola nuova, aprire un nuovo discorso, un nuovo capitolo del vivere, e non del consumarsi, tra noi?
Il Secolo XIX, 15 marzo 2015