Studiare

Sarà che questa è la settimana della Fiera e i libri impazzano come per San Giuseppe impazzano i brigidini, sarà che è cambiato il postino della via e il nuovo non ci ha quella passione per la lettura del vecchio, cosicché i libri me li lascia tranquilli in cassetta piuttosto che portarseli a casa per trarne elevazione morale e culturale, sta di fatto che negli ultimi giorni mi è stata recapitata una montagnola di volumi di varia ed eventuale scienza e fantasia, di piccoli e grandi editori, di ben noti e oscuri autori. Mi piace da impazzire scartare i libri dai loro complicati, sadici, imballi, mi piace addivenire per gradi alla loro copertina, alla loro consistenza di peso e misura, attendere non senza un filo di ansia, ancora dopo così tanti anni, di farmi stupire, o schifare, invogliare o deprimere da quello che trovo. Sì, è proprio una bella sensazione scartare e prendere a sfogliare un libro nuovo di zecca, poi, a leggerlo, si vedrà. Dalla catasta ne ho presi e messo da parte due, due libroni grossi così. Vi dico brevemente cosa c’è dentro quei due libri e poi veniamo al dunque. Uno, suddiviso per altro in due tomi, tratta delle antiche saghe scandinave, tradotte dall’islandese, prefatte e corredate di un mastodontico apparato di note. L’altro è l’edizione critica e analitica dell’opera filosofico pedagogica omnia di Antonio Labriola, che solo di saggio introduttivo ci saranno un trecento pagine. Ma chi se lo fila più Antonio Labriola? Sì, è stato qualcosa di più di qualcuno, è stato un filosofo tra i maggiori pensatori marxisti d’Europa, un materialista non dogmatico e piuttosto creativo che piaceva a Engels e a Trockij e all’università dava lezione a Benedetto Croce, ma chi sentiva mai la mancanza del riassetto della sua opera? Qui in giro non si sente manco la mancanza del marxismo, che ormai si studia solo a Wall Street, figuriamoci di Labriola. Tale e quale le saghe islandesi. Che sì, è pur vero che senza quelle antiche storie Tolkien il Signore degli Anelli manco se lo sognava, e allora diciamo pure che in versione addomesticata è roba da qualche milionata di copie, ma l’originale ragazzi, in versione integrale, critica e sistematica, è roba da rimanerci stecchiti. Orbene, gli autori delle due sconcertanti quanto inattuali opere sono due signori incidentalmente spezzini. Taccio il loro nome onde evitare che incorrano nel pubblico ludibrio; tanto tanto si fossero cimentati nel ramo del giallo o del nero, passi se ci avessero dato sotto con qualche bella poesia, ma quella roba lì è, per l’acuta sensibilità cittadina, sintomo di losca perversione. Io li conosco. Il nordico non lo vedo da vent’anni e più, l’ho lasciato che faceva l’impiegato con la sua scrivania in uno di quegli enti dove dietro a una scrivania ci si può naufragare, e te lo ritrovo che si è laureato e dottorato in islandese, dico islandese, e oggi come oggi è lo studioso di riferimento di quella roba. Mi sa anche l’unico. L’altro, il labriolano, l’ho conosciuto che era un bambino e poi appena ragazzino si è buttato in politica, e lì l’ho perso. Noli me tangere. Mi dicono che come politico non è nemmeno quel gran simpatico, ce ne fosse uno simpatico, ma ora ti vengo a sapere che si è fatto dottore in filosofia, e questa qui non è la sua unica fatica editorial labriolana e nel ramo eccelle e anche più.
E veniamo al sodo. Che è questo. Che c’è qualcuno che studia. Sembra accertato che non studi più nessuno, è vero. Studiare davvero, dedicare venti, trent’anni allo studio di una materia e di quella materia di una singolarità, quella singolarità a cui dedicare una vita, pubblicarne i progressi che leggeranno cento, che dico, dieci, studenti e colleghi, e continuare a studiare per capire qualcosina di più, e il resto non conta, il resto, che sia una scrivania o una giunta, è solo il boccone per far star buono mister Hyde. Quando mai? A che servirebbe, a che pro, con quale profitto, con quale vantaggio per la società, per le riforme, per l’economia, per il partito, per se stessi? Se non puoi nemmeno far gola al più sfigato dei talk show, se quando pubblichi non ti danno nemmeno la pagina locale, se non ci guadagni niente. Se non c’è la morale, come orrendamente è in uso dire? E io ho eletto quei due a miei eroi e a eroi del Paese, e in mia fede so che quella roba così inutile a cui si dedicano, li riscatta da ogni possibile e eventuale peccato e stramberia. Il loro studiare, e lo studiare di quelli come loro, che ci sono da qualche parte, lo so, ci salverà. Difficile crederci lo so, ma fidatevi. Se noi siamo qui a fare il bello e il cattivo tempo lo dobbiamo a quei maniaci che mille anni or sono hanno passato la loro vita a Cluny, a San Patrizio, a Norcia, e in cento altre abbazie e spelonche sperdute in mezzo al niente, a rompersi la schiena e a rovinarsi gli occhi su faccende che ai principi e ai servi parevano pura follia e perversione. Il sapere alla lunga si fa inevitabilmente materia, sempre, si fa oggetto di pronto utilizzo, dovessero passare mille anni. E il sapere non è quel tizio che si è cuccato il Nobel, lui è solo uno dei centomila mattoncini che vanno incastrati uno con l’altro, tutti di un colore diverso, ognuno di per sé e in sé inutilizzabile. Non è stato Carlo Magno a fare l’Europa, a farci noi, intendo, non la Commissione Europea, ma i mille e mille studenti a vita di Cluny e di San Benedetto. Anche quando si baloccavano con il sesso degli angeli, che, vedi un po’, alla lunga è venuto buono anche quel ramo della scienza.

Secolo XIX, 17 maggio 2015