Slow Fish
Buttato lì come una cartata d’acciughe. Una cartata d’acciughe lì sul piatto zincato di una bilancia a stadera, un gesto lesto per fare un chilo e tre etti, toh, ci metto anche due cicale, lì sul banco di marmo, tieni, un cono di carta di giornale che sciorina un mulinello di argento brunito, lampi di cento occhietti non ancora opachi, ma invece vividi come all’erta per un falso segnale di fuga, scivolano via e non c’è modo di tenerli buoni tra le mani, dalla carta macerata di sangue e salmastro traluce la fotografia di una russa con il casco spaziale. Una cartata d’acciughe buttata lì sul tavolo di un’osteria, carta gialla spessa da macello, pesciolini dorati e bruniti di frittura andante, un uomo sui cinquanta, tuta blu lavata e stirata, ne prende una a una sulle punte delle dita, delicatamente, osserva, constata, soppesa e poi se le porta alla bocca, mastica piano sopra pensiero, un mezzo al tavolo una saliera con tanto riso e poco sale, più in là, ancora più discosta, una mezzetta di vino rosso da faticare un po’ per arrivarci, dalla strada si fa largo un fascio di sole e un ragazzo che canticchia, saluta e ricanticchia non son degno di te non ti merito più. Una cartata d’acciughe qui, sull’acciaio screziato di sangue marino del lavello, involucro alimentare certificato Unione Europea, con l’unghia del pollice stacco una a una le teste e con le teste un filo di buzzetto, so come si fa, è un gesto lesto e senza sentimento, mia moglie è uscita per non vedere, ripongo le teste in un a scodella casomai alla gatta gliene venisse voglia, è un lusso, mia madre non buttava le teste, a mio padre piacevano più del resto, alla radio il presidente degli Stati Uniti dichiara che manda tutti a quel paese, se lo scocciano ancora tira fuori la bomba. Qualcosa è cambiato, no, è cambiato tutto, tutto ma non le acciughe, non ci sono acciughe 2.0, non ci sono acciughe post di qualcosa. È per questo che ne sto pulendo da mezz’ora e poi le cuocerò all’aglio e prezzemolo con un tiro di vermentino, perché non ho altre certezze. E mi sento proprio così, come una cartata d’acciughe buttata lì in mezzo al mondo.
Il Secolo XIX, 21 maggio 2017