Sanremo

E va bene, pare che quasi la metà dei dipendenti del comune di Sanremo è fatta di gran lavativi. Lavativo rende abbastanza l’idea, ma mio padre usava un’espressione più efficace, mangiasugo. Il mangiasugo (che a differenza di lavativo non è compreso tra le voci del dizionario Treccani) è quel membro della famiglia, ce n’è uno in ogni famiglia, foss’anche uno zio o una cugina in visita domenicale, che si aggira attorno al tegame del sugo ancora in sobbollitura munito di un pezzetto di pane, pronto a intorsarlo (non c’è neanche questo bel verbo nel Treccani) nel prelibato condimento mentre gli altri aspettano pazienti e rispettosi delle leggi familiari che il sugo venga equamente suddiviso assieme alla pasta. Va detto che per apprezzare appieno la significante rotondità di mangiasugo bisogna essere abbastanza vecchi per aver vissuto un’epoca in cui la pasta al sugo (che sta per ragù, nell’accezione alla genovese) si mangiava solo la domenica e di condimento non è che ce ne fosse in abbondanza, così che in questo contesto storico e antropologico il mangiasugo è qualcosa di più spregevole e subdolo del generico mangiatore a ufo (questo nel Treccani c’è) in quanto sottrae alla famiglia in penuria approfittando della fiducia che la famiglia accorda ai suoi membri. Da un punto di vista squisitamente etimologico dunque, sarebbe appropriato dare dei mangiasugo a metà dei dipendenti del comune di Sanremo, sì, non fa una grinza, salvo il particolare non irrilevante di un inoppugnabile esito in tal senso del giudizio a cui saranno sottoposti come legge impone, ringraziando Iddio che c’è ancora una legge da qualche parte. Ciò detto, personalmente più che ai mangiasugo la vicenda di Sanremo mi ha sollecitato a pensare ad altri. Perché se è vero che la metà dei “comunali” è in sospetto di infamante e rea condotta, deve essere anche vero, per forza di logica se non altro, che un’altra metà svolge regolarmente, assiduamente, i suoi compiti. Ecco, loro mi interessano ancor di più perché portano in sé un qualche mistero. Nel comune di Sanremo c’è gente che lavora, e lavorando pensa. Cosa pensano quegli onesti lavoratori? Ad esempio, cosa pensano mentre assistono alla processione dei colleghi intorno al tegame del sugo? Cosa pensano mentre se ne stanno a schiattare nei calori di una bella estate sanremese e traguardano da una finestra dell’ufficio il collega che si ristora canottando? Cosa pensano mentre timbrano il cartellino alle 7,59,00 per sé e solo per sé, mentre si appresta a timbrarne un mazzetto il collega della porta accanto e si sta svegliando la bambinetta che di lì a un po’ timbrerà per conto del papà e magari, già che si è svegliata, anche di qualche suo amico nel caso ci fosse da fare un piacere? Cosa pensano un giorno via l’altro, un mese via l’altro, un anno via l’altro? Qualcosa gli passerà pur per la testa, e io mi chiedo cosa. E mi sembra un interrogativo interessante, un mistero di delicati, sottili contorni. Sono orgogliosi di essere diversi dai loro colleghi o si vergognano di non essere così intraprendenti? Sono dei pavidi o dei coraggiosi? Dei pazienti o dei supini, quando inevitabilmente incroceranno gli sguardi dei mangiasugo e coglieranno forse disprezzo, forse irrisione, forse meraviglia; chissà, magari anche rispetto, come viene naturale a tutti quanti i reprobi avere, alla fine, un qualche rispetto per i santi, i martiri, gli scimuniti totali. Si chiedono forse passando davanti alla caserma della Guardia di Finanza o davanti all’ufficio del sindaco, non senza turbamento immagino, se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dei mangiasugo o prendere le armi contro un mare di soprusi e, contrastandoli, porre loro fine? Non sono domande oziose, perché se questo paese è ancora in grado di offrire qualche servizio di pubblica utilità, dipende da cosa pensano quegli onesti lavoratori, cosa pensano oggi quando aprono lo sportello al pubblico, cosa penseranno domani quando apriranno il registro delle pratiche inevase, cosa passa loro per la testa quando si accingono a fare quello che gli altri non fanno. Ed è pure di un qualche interesse venire a sapere se la soddisfazione dei nostri bisogni dipende da dei coscienziosi, ancorché strani, connazionali, o da degli alieni motivati da secondi e agghiaccianti fini.
Al margine di ciò, un’altra mia curiosità. Visto che non si è mai palesata una sommossa popolare per l’inefficienza dei pubblici uffici, se ne deduce che i pubblici uffici abbiano funzionato nonostante metà del personale addetto fosse dedita a sottrarre il sugo alla collettività. Ergo, se ne deduce che o il personale è il doppio del necessario, o metà dei servizi offerti è di palese inutilità. Il che apre altri scenari.
Il Secolo XIX, 25 ottobre