Questa mia città

Ci sono arrivato da transfuga in questa città: principe degli orti e dei bozzi di Val di Magra decaduto a proletario inurbato. Ricordo il trasloco, o forse ricordo il sogno di quel trasloco, perché l’immagine è come di un film di quegli anni cinquanta: un camioncino 1100, la roba sul cassone legata con le funi, io, mia madre e mia sorella nella cabina con l’autista. L’autista che puzzava di sudore dal cappello di paglia, mio padre che aspettava in una casa vuota. Le persiane di quella casa abbassate, ma tra le stecche il riverbero del selciato di una piazza. E io che sbirciavo e avevo paura della vastità nuda di quella piazza. E la piazza che si riempie di una musica che non avevo mai sentito, e mio padre che apre le persiane, e la musica riempie tutto, anche la mia paura, e la solitudine della casa, e l’abbandono. Passa la serenata.
Si, passava la serenata a consolare le domeniche in Piazza Garibaldi, passava a consolare la città intera la fanfara militare, e accecava di bellezza e di orgoglio, bianca e dorata com’era. Passava la mattina e tornava la notte. La notte raccoglieva i marinai che si erano persi per le vie degli incerti piaceri di ragazzi più soli di me. “Imm’e a cuccà, guagliò” esortava pacato il maresciallo, e i ragazzi si mettevano in fila dietro la musica lisciandosi i solini. La città si spegneva con il trillo dell’ultimo clarino sulla porta del Duca degli Abruzzi.
E così sono cresciuto in piazza Garibaldi, frontiera a mare della città operaia. E ogni mattina, mentre io me ne andavo a scuola, gli operai sciamavano dal quartiere Umberto sulle loro biciclette nere, la gamella legata alla canna, il giornale infilato nel gibbonetto verde, il berretto di lana in testa, le mani nei guanti. Mani fine, che andavano protette e curate; mani da congegnatori, tornitori, aggiustatori. Mani di creatori. Vedevo quelle mani, nei giorni di festa, aprire con un temperino invisibile le valve dei muscoli al banchetto in mezzo alla piazza. Dodici muscoli, un bicchiere di bianco. Vedevo quelle mani, tra un muscolo e l’altro, disegnare nell’aria il complicato congegno della futura umanità; ascoltavo tra le pieghe del cappotto di mio padre, una mano stretta alla martingala -io sono di lui- progetti di redenzione sociale, piani di fattibilità per razzi interstellari, preoccupate analisi calcistiche. Mentre mia madre su in casa stava perdendo la vista per rifinire a puntino le casacche della squadra di calcio di città. Ma io tifavo per l’Arsenal Spezia.
Sono cresciuto in questa città camminando a bocca aperta lungo i viali di platani per respirare a primavera la neve di semi piumati, per sentirmi in un piccolo sogno, per valicare in quel sogno l’elegante muraglia oltre i canali e scegliere tra le navi addormentate quella abbastanza bella per partire. E crescevo andando a vedere di là dal filo spinato della piazza d’armi i marines americani trastullarsi con una palla da baseball, mentre le tre giovani “spigliate” della città, tutte e tre accatastate al registro della pubblica perdizione, tutte e tre ossigenate da far impazzire, tenevano al caldo delle mani lattine di birra. La birra che non c’era nei bar, quella di contrabbando che i barcaioli vendevano ai giovinastri; le ragazze del peccato, l’ambito peccato con cui io non ho mai avuto la pur minima possibilità di tingere la mia tremula anima. Sono cresciuto avendo nell’orecchio, come una nostalgia cronica, il basso eterno regolarissimo respiro unisono delle fabbriche delle navi, il pane della città. Che ancora oggi si sente quella specie di sordo cuore -non è un’illusione- oggi che sono finite fabbriche, bellezza e pane.
Quella bellezza.
Perché sono cresciuto, si, ma alla fine sono rimasto. Sono rimasto perché le navi per partire si sono tutte quante dileguate oltre l’orizzonte dei miei piccoli sogni. E sono rimasto, però, perché sto ancora cercando bellezza. E la trovo. Ogni giorno che Iddio manda in terra salgo la collina e me la sto a guardare. La guardo e so che c’è bellezza anche nelle offese. La ascolto e sento che respira. E nel suo respiro c’è dolcezza. E forse parla, e prima o poi imparerò la sua lingua. Quella nuova che da qualche parte qualcuno sta sillabando. Quella vecchia intanto mi bisbiglia all’orecchio: passa la serenata.

Secolo XIX, 11.06.2000