Poeta ambulante
Giovedì mattina di buon’ora, a un famoso programma radio di lettura dei quotidiani aperto ai contributi degli ascoltatori –che si vantano di non leggere i giornali perché tanto non dicono niente di ciò che a loro preme e non credono alle loro orecchie quando scoprono che se li leggessero anche solo ogni tanto li troverebbero ben forniti proprio di quello che a loro manca- l’ascoltatrice Sandra da Genova ha testimoniato del pietoso stato in cui versa la sua città, il degrado, la sporcizia, la criminalità. Lo stesso giorno di giovedì al tramonto ero in piazza delle Vigne, prendevo un aperitivo con gli amici e intanto ascoltavo il Quinto Canto dell’Inferno –quello di Paolo e Francesca tanto per capirci- recitato in modo straordinariamente efficace e pertinente da un signore di rara e delicata distinzione che con la lectura dantis di strada cerca di procurarsi da vivere. Il suo è un antico e nobile mestiere, ne fu antesignano il Boccaccio, che non campava di certo con i diritti del suo Decameron ma per anni recitando sulla pubblica piazza del Bargello la Commedia ai fiorentini analfabeti, è un mestiere che nobilita autore, lettore e pubblico. E sarò anche un idiota, ma se oggi è possibile ancora esercitarlo per le strade di Genova, so che quel signore non disdegna per le sue letture neanche la periferia, senza essere sbeffeggiati, zittiti, bersagliati da oggetti contundenti, e persino ricavandone abbastanza per non soccombere alla miseria, allora questa città non può essere quella della signora Sandra, non solo quella. Naturalmente so, avendoci casa, che a cinque metri dalla lectura ci stanno gli spaccia nigeriani e a dieci le donnacce faberiane, so che anche se non mi sembra così sporca la città potrebbe essere più pulita, anche casa mia adesso che ci penso, e quando quel signore va a recitare l’ultimo canto del Paradiso in via Buranello ha il suo daffare a concentrarsi sulle sfere celesti, come credo di saperne in generale della città abbastanza da non confonderla con Stoccolma, ma Genova non è l’inferno, non quello dantesco, come possiamo rinovellare fermandoci ad ascoltare il suo magnifico lettore. Forse quello sartriano, almeno per chi, spaventato a morte dalle sue stesse ombre, è arrivato alla disperante conclusione che l’inferno sono gli altri.
Il Secolo XIX, 18 giugno 2017